F.01

Come si riparte? Credo facendo suonare un buon disco e sorseggiando una camomilla. Forse è sufficiente, forse no, ma ha importanza? Servono foglie di Negrita, e note di XXX. Tutto qui, semplicemente. Appesi come spighe di grano in attesa che il vento ci porti via. Fumati, sfumati. Oggi è una di quelle giornate in cui ho ripreso contatto con la realtà. Ho visto il sole sorgere, l’ho visto tramontare. Ho visto le vecchie amicizie mischiarsi alle nuove, un vecchio amore incontrare una nuova ossessione. Ho capito che non ha importanza. Non ci sono risposte a certe domande. Solo il tempo che scorre, nulla di più. Qualche “anche io” che fa piacere. Magari uno spritz. O più semplicemente una birra. E il profumo della miscela di una vecchia moto 2 tempi. Magari i discorsi sui carter. Le foto di un matrimonio a cui nessuno di noi sarebbe voluto andare. Il sapore della torta. O il sapore che ho ora in bocca. Non so, se avete provato il solfato di cocaina mescolato alla marijuana, il sapore che percepisco è quello. E ‘fanculo!

Le dimensioni contano – Parte 51 – Finale

Oggi è il 16 Settembre 1987. In questo momento sono una paziente di sette anni ricoverata al reparto di ortopedia del Policlinico Santissima Annunziata di Sassari. Sono la figlia di Anna, un’affascinante trentenne sposata con un bellissimo infermiere biondo, mio papà, l’uomo più bello del pianeta.
Mamma e papà si amano tanto, anche se a volte litigano. In genere causa della lite è mio nonno, il dottor Lafitte, un medico belga che continua a definire gli infermieri come “dottori mancati”. In realtà mia madre litiga anche con mia nonna, che spesso si dimentica di badare a me quando dovrebbe. Io però voglio bene a tutti, anche se per nessun parente nutro l’affetto che provo per Sonia.
Sonia è una rompiscatole prepotente, saccente, opportunista e talvolta bugiarda. Ma anche io sono una rompiscatole prepotente, saccente, opportunista e talvolta bugiarda. Sonia è la mia migliore amica, ma anche la mia nemesi. Passiamo il tempo a bisticciare, ma siamo inseparabili. Per questo motivo Sonia è l’unica compagna di classe a cui permetto di farmi visita.
«Come stai oggi?» mi chiede sedendosi sul bordo del letto.
Non le rispondo. Purtroppo sono ricoverata in ospedale, perché una settimana fa mi è successa una bruttissima cosa. Ero a Sorso a casa dei nonni, giocavo nell’aia con mia nonna. Quando lei è entrata in casa per rispondere a una telefonata, io mi sono precipitata nel granaio, perché volevo usare la motosega. In passato ho visto tante volte come si avvia quell’affare, ma senza rendermi mai conto che nessuno poggia il piede sulla lama prima di tirare il cordino dell’accensione.
Così il motore della motosega è partito, e la lama ha cominciato a ruotare, maciullandomi una gamba.
Tra una settimana partirò per Londra, dove alcuni super-medici amici di mio nonno si occuperanno di me. Ovviamente qualsiasi operazione e cura a cui verrò sottoposta, compresa la più innovativa e rivoluzionaria, non mi restituirà comunque l’arto. Dunque vivrò il resto della mia vita senza una gamba.
«Quando torni a scuola ci sediamo vicine», afferma ancora Sonia, sperando che le rivolga la parola.
Mi volto e la guardo. Non sorride, anche se si sforza di farlo. «Hai perso un dente!» osservo aspramente, sperando di indispettirla. «Sembri la vecchia di Biancaneve»
«Sì!» conferma lei, per nulla scalfita dal mio tono ostile. «Ma comunque ricresce, e inoltre è anche passata la fatina dei dentini», aggiunge con invidiabile entusiasmo. «Mi ha lasciato dei soldi sotto il cuscino».
Sbuffo. «Esiste anche la fatina delle gambe?»
Sonia non risponde. «Abbiamo un nuovo vicino di casa», racconta invece. «Si chiama Marco e…»
«E chi se ne frega?»
«Era così per dire», sorride comunque. «Ora vado, ho pallamano alle quattro».
«Sì, vattene, e non tornare più».
«Ciao», mi saluta baciandomi la fronte.
Non mi ha mai baciata in passato. Mi ha morso fino a farmi sanguinare, mi ha sputato contro saliva e catarro, ma non mi ha mai dato un bacio.
Forse avrei preferito uno sputo e un morso.
Ma questa è la mia vita, la mia nuova vita. Nel mio futuro non ci saranno partite di pallamano, corse nei prati o semplici calci a una coetanea che mi sta sulle ovaie; né ci saranno fughe nel cuore della notte in adolescenza, quando mia madre mi riterrà ancora troppo piccola per star fuori la sera. Il primo bacio lo darò a qualcuno che non riterrà imbarazzante frequentare una ragazza con un arto artificiale.
Probabilmente ascolterò e sopporterò gente in perfetta salute che mi spiegherà che la disabilità non sia certo un limite per fare ciò che mi rende felice. Certo, ci sarà anche chi mi offrirà un lavoro in nome dell’integrazione e delle pari opportunità. Magari diventerò un’atleta paralimpica o qualcosa di simile. O forse no. Potrei suicidarmi a quindici anni dopo aver scoperto che Marco Masini ha fatto una cover in italiano di Nothing Else Matters.
Però mi piace pensare che esista un universo parallelo in cui qualcuno mi ha tirato via prima di accendere la motosega, un universo in cui ho ancora due gambe e sono sul campo di pallamano a fare a botte con Sonia e le altre mie coetanee, un universo in cui magari Marco Masini è un promettente tennista che in futuro si dispenserà da fare il cantante o scrivere canzoni.
Passa un’ora, che trascorro a guardare passivamente Bim Bum Bam.
«Ti fa male?» mi chiede un bambino grasso che è appena entrato nella mia stanza.
«Che domanda stupida. Come può farmi male qualcosa che non ho più?»
Mi fissa imbarazzato. «A me hanno tolto l’appendice», mi informa con candore, come se fossimo nella stessa barca. «Ma mi fa comunque male e…»
«E chi se ne frega?»
Lo guardo un attimo. Deve essere più grande di me, perché è più alto di almeno venti centimetri. È biondo, ha gli occhi chiari e le labbra carnose. Sembra il figlio di John Candy.
«Io sono Gabriele», dice porgendomi la mano. «Tu come ti chiami?»
«Valeria», sussurro senza dargli la mano. «Ora vattene».
Ma il bambino biondo non ha intenzione di lasciarmi sola. Forse in un altro universo vorrebbe giocare con una bimba che ha entrambe le gambe. Magari in un altro universo la sua appendice non si ulcera. Ma in questo universo sceglie di stare con me.

But I don’t want somebody
Who’s loving everybody
I need a shy guy
He’s the kinda guy who’ll only be mine

Shy Guy – Diane King

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Le dimensioni contano – Parte 50

Luce era intelligente e acuta. Ci vollero dunque pochi minuti per spiegarle che avrebbe trascorso i successivi trent’anni a fare dentro e fuori da un universo all’altro. Non fu semplice per me affrontare quel discorso, perché più parlavo e più mi rendevo conto che mia figlia fosse probabilmente destinata alle stesse sofferenze che avevo patito io. Ma era anche una situazione che non potevo evitare.
«Ma papà?» chiese infine Luce. «Perché qui non viviamo con papà?»
Sorrisi. «Perché non so nemmeno chi sia l’uomo che chiami “papà”».
Mia figlia tacque per alcuni secondi. «Cerchiamolo su Facebook», propose.
Era un’ottima idea. Luce prese il mio Samsung S8 e cercò suo padre sul più celebre tra i social network. Trovò il profilo in pochissimi secondi, ma non fu un bene per lei: Gabriele era felicemente sposato con Sonia e avevano un figlio.
«Come è possibile?» chiese mia figlia, scettica e incredula. «Voi vi amate tanto», rivelò agitata. «E perché papà è così magro e muscoloso? Dovrebbe essere un ciccione burroso, lo è sempre stato, da quando vi conoscete».
Sollevai le spalle, non sapevo come risponderle. Poi mi resi conto di un fatto che avevo ignorato per anni. La prima volta che mi ero svegliata nella cuspide, più di vent’anni prima, ero fresca di rottura di fidanzamento da un mio coetaneo sovrappeso. [qui il capitolo dove Gabriele è grasso] «Era sempre lui», sussurrai dunque sottovoce. «Ci sono i nonni nella dimensione da cui vieni tu?» chiesi quindi a mia figlia.
«Tutti, tranne nonna Anna».
«Chi è tuo nonno materno?»
Luce mi fissò perplessa. «È nonno Marco», affermò sorpresa. «Qui chi è?»
Avrei dovuto rivelarle che in realtà Marco non era suo nonno, ma semplicemente il compagno di sua nonna, cioè mia madre. Avrei dovuto raccontarle dell’infermiere biondo, l’uomo che si era rifiutato di far parte della nostra vita. Ma a che pro? Tanto mia figlia lo avrebbe comunque scoperto da sola prima o poi, e amaramente. Volevo lasciarle un briciolo di serenità, anche se sapevo non sarebbe durata a lungo. E non mi interessava se, per via delle mie bugie e omissioni, in futuro non si sarebbe più fidata di me, perché avrei comunque anche tragicamente scoperto di non potersi fidare di sé stessa. Luce era destinata a galleggiare nella stessa identica e putrida merda interdimensionale in cui ero stata immersa io alla sua età.
«Anche qui tuo nonno è Marco, mio padre», le mentii infine. «Volevo solo verificare che non mi stessi imbrogliando».
«E perché mai dovrei imbrogliarti?»
Cambiai argomento. «Preparati. Andiamo a farci una scampagnata».
Sorrise. «Nell’altro universo odi le scampagnate. Detesti stare all’aperto in generale, perché le persone prima o poi si accorgono che hai una protesi sotto il ginocchio destro».
«In questo universo non ho acceso quella maledetta motosega», le ricordai. «Poter cambiare le cose è uno dei migliori vantaggi della nostra esistenza inter-dimensionale».
«Nell’altro universo ho l’iPhone», osò allora mia figlia.
Risi. «E credi che me la beva?» domandai sarcastica. «Ci hai provato, ragazza».

Pochi giorni dopo mi venne il ciclo. Al risveglio nel nuovo universo Luce era nuovamente scomparsa. Al suo posto c’era Michele, mio figlio dodicenne, ed ero nuovamente sposata con Gianni, aka Mr grandepancia-piccolocazzo. Fu sconvolgente, ma mai quanto leggere il referto della mia ultima visita ginecologica: nonostante i trentasei, ero entrata prematuramente in menopausa. Ciò significava che non ci sarebbero stati altri viaggi inter-dimensionali, e che non avrei mai più visto mia figlia.
«Mi dispiace», disse Marco, il mio ex patrigno, quando lo raggiunsi alla facoltà di Ingegneria di Cagliari, dove insegnava fisica.
«Dispiace anche a me», ammisi. «Ma forse è meglio così. Ho davanti a me tanti anni di normalità», affermai sconsolata.
Mi sorrise. «Credo dipenda dalla compensazione», ipotizzò. «Le tue ovaie sono state sottoposte a…»
«Taci, Einstein!» lo interruppi. «Se la teoria della compensazione fosse vera, tu saresti morto da tanto. E sicuramente Sonia, Ivan, Carolina e tanti altri non sarebbero ricomparsi l’uno dopo l’altro», gli dissi. «Non c’è nessuna compensazione. È solo caos! Dimentica tutte quelle robe meta-scientifiche sull’effetto farfalla, i paradossi, i paradigmi filosofici, o qualsiasi altra stronzata che gli scienziati si inventano per descrivere le cose non per come sono ma come vorrebbero che fossero. Credimi, è solo un gigantesco minestrone cosmico, nulla di più».
«Bizzarro», commento Marco. «Tua madre mi disse qualcosa di simile, molti anni fa», aggiunse malinconico. «Solo non capisco una cosa. Perché sei venuta da me se hai queste convinzioni?»
La risposta era semplice: volevo ficcargli il bisturi nello scroto. Non avendo più il ciclo sapevo che il mio gesto sarebbe quasi certamente stato definitivo, e finalmente potevo trovare conforto per essere stata stuprata. Non mi interessava se Marco in quella dimensione era adorabile e se mai e poi mai mi avrebbe messo le mani addosso. Mi sentivo comunque in diritto di vendicarmi di ciò che avevo subito. E non era certo colpa mia se le circostanze punivano il Marco sbagliato, perché il vero colpevole era il caos.

Lunedì il finale.

Le dimensioni contano – Parte 49

Carolina era viva. Ciò mi sconvolse, ma mi fece anche piacere. Malauguratamente non eravamo amiche e anzi, l’astio reciproco era tale che sua figlia dava della “bastarda” alla mia. Era un precedente che non doveva ripetersi.
«Jessica dovrebbe scusarsi», insinuai.
Ma Carolina scosse il capo. «Sicuramente tua figlia ha capito male», disse con tono di sfida. «Anche se non è da escludere che qualcuno la chiami a quella maniera», aggiunse con astio. «In fondo è quel che è, una figlia di NN. O sbaglio, Valeria?»
Chiusi gli occhi per contare fino a dieci, ma mi fermai a tre. «Tuo padre scopava con mia madre», dissi a voce alta, senza essere certa che fosse effettivamente così in quell’universo. «Se vuoi ti descrivo la forma del suo cazzo, così puoi controllare», aggiunsi con livore. «Quindi, prima di farmi sentire una puttana solo perché cresco mia figlia da sola, chiediti se la tua vecchia è tanto frigida da costringere tuo babbo a tradirla».
«Mia madre è morta!» mi “ricordò” Carolina. «Eravamo alle medie, ed è stato terribile», continuò. «Come puoi dire queste cattiverie?» chiese in lacrime colei che aveva insegnato alla figlia di sei anni a dare della “bastarda” a una sua coetanea.
Max sfruttò il fischietto per richiamare le altre bambine, incuriosite e in parte inquietate dalla scena. Qualcuna era anzi prossima alle lacrime «Mettetevi lì in cerchio, dietro la linea», ordinò perentorio indicando la parte opposta del campo da volley. «Voi no!» disse quindi rivolgendosi a mia figlia e Jessica, quando le vide raggiungere le altre. «Per voi qui non c’è più posto» aggiunse soprattutto a beneficio di noi madri.
Jessica e Carolina protestarono in maniera colorita. Luce invece recuperò la giacca della tuta e mi chiese di portarla a casa. La accontentai.
Mia figlia imparò una lezione importante dalla faccenda del minivolley: anche se era stata provocata, l’aggressività era controproducente. Di conseguenza avrebbe cercato di essere meno impulsiva in seguito. Tuttavia restò comunque una grandissima scassapalle petulante.
«Sei un cane!» mi disse un pomeriggio, pochi giorni più tardi.
La fissai. «Perché mai dovrei essere un cane».
«Perché non ti piacciono i gatti».
Voleva un felino, e da qualche giorno continuava ad insistere perché ne prendessi uno al negozio di animali. Personalmente non avevo nulla contro i gatti, che ritenevo animali eleganti e silenziosi. Però non sapevo se fossi o meno allergica al loro pelo, o se lo fosse mia figlia. Visto che avevo fatto fuori il quaderno con Snoopy in copertina, decisi di controllare tra le mie cose. Doveva pur esserci una qualche cartella clinica da qualche parte, visto che in fondo avevo comunque partorito.
Non trovando nulla a casa mia, frugai da mia madre.
«Cosa è quello?» chiese Luce individuando un’agenda rossa sotto una pila di documenti.
Sorrisi. «E brava la mia ragazza», considerai. «Per cena puoi avere i broccoli!»
«Non mi piacciono i boccoli», protestò lei.
«Broccoli», la corressi. «Allora come premio non ti faccio i boccoli e ti faccio i broccoli».
L’agenda era ancora una volta stracolma di informazioni. Tuttavia non capivo una mazza di fisica, come era sempre stato, quindi per me tutta quella roba era come ostrogoto traslitterato in greco. Nell’ultima pagina però trovai una sorta di nota esplicativa. Erano poche righe scritte in penne blu, nelle quali si sintetizzava per sommi capi il funzionamento degli universi paralleli. Era tutto comprensibile, anche troppo forse. Ciò che lessi mi inquietò. La grafia inoltre era quella di mia madre. Almeno da morta mi rivelava ciò che mi aveva sempre nascosto da viva. Strappai quindi quella pagina e la feci a pezzi.
«Sei arrabbiata?» chiese Luce.
Scossi il capo, fingendo di star bene. «No!» dissi.
«Cosa c’era scritto in quel foglio?»
«Era una ricetta per una torta», mentii ancora.
La compensazione, la morte definitiva di alcune persone, la cuspide, il non potersi suicidare, la figlia femmina a ventitré anni, il fatto che prendendo una decisione importante gli universi si sdoppiassero: tutte cazzate! La fisica è una scienza che l’uomo studia per approssimazione e che non può evitare di inzozzare con minchiate mistiche. Gli esseri umani sono incapaci di accettare la casualità e perciò ipotizzano l’esistenza di un destino che talvolta chiamano Dio. In fondo quando accade una tragedia è confortante incolpare un disegno superiore.
«Sai che dico?» conclusi sorridendo a mia figlia, e decidendo che non le avrei mai rivelato il vero significato e funzionamento degli universi paralleli. «Adesso la mamma ti porta a prendere un gatto, ok?»
«Voglio un coccodrillo!» affermò quindi. Le presi un’iguana e lei lo chiamò Merda.

Il 7 Ottobre 2016, mentre preparavo la colazione, e mentre sculettavo spensierata sulle note di Days are Forgotten, mia figlia, ormai dodicenne, apparve in cucina. Aveva sul volto un’espressione sconvolta.
«Tutto bene, amore?»
Scosse il capo. «Perché abitiamo qui?» chiese spaventata. «Dove è papà?» continuò. «Il tuo piede…» osservò infine. «Mamma, ti è ricresciuto il piede?»

Le dimensioni contano – Parte 48

«Ciao!» salutai sorridente, dopo essermi voltata.
Gabriele era sempre Gabriele. Era perfetto in completo azzurro e camicia nera. Biondo, alto, in forma, portamento elegante e sguardo carismatico. A trent’anni era al top del proprio fascino. Tra le altre cose aveva anche un buon profumo, nonostante fosse sudato per via del lavoro.
Eppure c’era una nota stonata in quella sinfonia di muscoli e avvenenza: la fede al dito. Gabriele era sposato, ciò mi ferì. Non avevo alcun diritto da reclamare, dunque la mia fu una reazione irrazionale. Però lo amavo, ne ero certa, dunque restai spiazzata alla vista dell’anello. Avrei voluto dire un sacco di cose, ma non mi venne alcuna parola.
Parlò lui invece. Tra noi c’era una faccenda in sospeso, anche se ne ero all’oscuro: «se volevi sparire, perché tutta la messinscena di chiedermi il numero?» chiese bruscamente. «E perché a quella maniera?»
Non avevo assolutamente idea né della messinscena, né tanto meno della “maniera” a cui faceva riferimento lui. Conoscendomi, potevo solo ipotizzare che non avesse torto. In fondo sarebbe stato sufficiente prendere ad esempio un solo episodio della mia esistenza, anche non di stampo affettivo, per constatare la mia assoluta capacità di incasinare le faccende o di comportarmi in maniera subdola e irritante.
«Mi dispiace tanto!» dissi allora.
Gabriele scosse il capo. «Tu mi piacevi davvero», ammise. «Sei una bella donna, sei divertente e sei…»
«…una gran porca a letto?» provai ad aiutarlo.
Rise. «No!» affermò poi. «Cioè sì, sei anche una gran zozza», si corresse leggermente imbarazzato, «ma sei soprattutto una delle persone più cristalline che conosco», continuò con tono sommesso. «Hai mille difetti, ma non sei una che finge: quando sembri incazzata, sei incazzata; quando sembri felice, sei felice; quando sembri eccitata, sei bagnata come il Tikitaka», concluse.
Sollevai le spalle. «Si chiama Titicaca comunque», lo corressi. Poi sorrisi, e mi ricordai del mese trascorso da sposati, anche se era passato un decennio. E alla fine ciò gli che dissi venne fuori spontaneo: «per me sei importante in tutti gli universi!» rivelai.
«Cosa significa?»
Significava che in quell’universo non conosceva il mio segreto, e che dunque era il caso di andarmene via. Mi avvicinai e lo baciai su una guancia. «Abbi cura di te!» dissi delusa. Quindi mi voltai e feci per allontanarmi.
«Aspetta», mi pregò lui, afferrandomi per il polso della dritta. «Sono sette anni che ti cerco, Cristo santo. Sei sparita nel nulla…» continuò con tono meno ostile. «Dimmi almeno perché non mi hai contattato».
Mi girai nuovamente verso di lui.
Avevo gli occhi rossi e gonfi, forse lucidi, ma non piangevo. Volevo dirglielo, in fin dei conti non avevo nulla da perdere. «Perché io viaggio tra gli universi. Quando ho le mestruazioni salto in una dimensione diversa da quella in cui sono stata nel mese precedente. Quindi la donna che non ti ha contattato negli anni non sono io. Né sono quella che hai incontrato sette anni fa. E sappi che se io e te ci frequentassimo, tra venti o venticinque giorni avresti a che fare con una che non sono più io», rivelai in modo concitato e confuso. «Ho una figlia che potrebbe essere tua, ma non lo so», aggiunsi. «Quindi non farmi domande complicate, perché non so più un cazzo della mia vita, ok?»
Silenzio.
Non so cosa mi aspettassi. Forse una scena tipo film con Meg Ryan, dove il bello di turno abbraccia la protagonista e le dice qualche vaccata melensa. Ma non accadde. Gabriele fece due passi indietro, letteralmente. Poi mi guardò in un modo che non dimenticherò mai. I suoi occhi chiari, che constatai assolutamente identici a quelli di Luce, trasudavano soprattutto pietà, come se avesse a che fare con una pazza, con una schizofrenica.
«Hai bisogno di aiuto», disse infatti.
«Assolutamente», conclusi sibillina. «Ti amo», sussurrai senza ottenere risposta, prima di congedarmi.
Non ricordavo di aver mai pronunciato un “ti amo” in tutta la mia vita. Magari era successo, ma era stato importante o sincero, dunque non lo ricordavo. In trent’anni avevo provato la cocaina, la promiscuità, l’omosessualità, l’omicidio, la disabilità, la maternità, l’essere stuprata; ricordavo anche di aver amato, ma mai di averlo affermato esplicitamente. C’è sempre una prima volta, anche se accade a trent’anni.

Alcuni giorni dopo accompagnai mia figlia in palestra. L’avevo iscritta al minivolley, sperando che si limitasse a schiaffeggiare solo la palla e non le coetanee. Uno degli istruttori era Max, con cui ero stata fidanzata a lungo molti universi prima. Fu molto appagante incontrarlo, se con “incontrarlo” si intende “dargli il numero di telefono e il mattino dopo prendere mezza giornata di permesso dall’ufficio per un bocca-fica-culo in un B&B poco fuori città”.
«Quando ci rivediamo?» mi chiese infatti quel giorno, affiancandomi dopo aver ordinato alle bambine venti giri di campo che, conoscendole, non avrebbero mai completato.
«È un “l’altra volta mi sono divertito parecchio”?» stuzzicai.
Rise. «Qualcosa di simile», replicò, prima di dover mettere in bocca il fischietto.
Due bambine avevano cominciato ad azzuffarsi, e si rotolavano sul parquet tirandosi reciprocamente i capelli. Urlavano come se fossero possedute. Una delle due era Luce; l’altra si chiamava Jessica e aveva una faccia che mi sembrava piuttosto familiare.
«Mi ha chiamato “bastarda”», protestò mia figlia quando le separammo.
«Ti sarai sbagliata, tesoro», disse la madre di Jessica, una cicciona cotonata che mi ricordava qualcuno.
«Carolina!!» affermai infine. «Sei viva?»

I capitoli con Max qui e qui.

Le dimensioni contano – Parte 47

Dovevo scegliere se essere altruista, egoista, entrambe le cose, o nessuna delle due. Dovevo anche pesarlo bene l’altruismo, perché avrei dovuto scegliere se rispettare o meno le ultime volontà della mia vecchia, quelle che avevo letto prima di entrare nella cuspide. Inoltre si trattava di mia madre, una che si sarebbe lasciata uccidere dall’elica di un motoscafo pur di non darmi la soddisfazione di un “grazie” per averle salvato la pellaccia.
In ogni caso, l’avevo cercata, dunque dovevo pur dirle qualcosa.
«Volevo sapere se ti serve una mano con il digitale terrestre?» le chiesi quindi.
«Ci ha pensato il tuo ex, Gianni», replicò lei. «Tutto qui?»
Ok, forse potevo prendere due piccioni con una fava. Ma non avevo intenzione di tornare con Gianni, anche se mi bagnai come le cascate del Niagara pensando a quel ciccione minidotato che mi sbatteva mentre Luce dormiva nella stessa stanza. Riguardo alla mia vecchia invece, potevo salvarle la vita, ma non lo feci. Replicai «tutto qui, a dopo!» e chiusi la chiamata. Erano le dieci e trenta del mattino e ogni minuto che trascorreva continuavo a ripetermi lo stesso identico concetto: “è ancora viva. Chiamala e mettila in guardia!”
A un certo punto composi anche il numero, ma non premetti il tastino verde che faceva partire la chiamata. Sapevo che, salvo colpi di scena, mia madre sarebbe morta sul colpo, senza rendersene conto. La sua vita sarebbe finita all’improvviso, serenamente, mentre faceva qualcosa che la rendeva felice.
«Ciao mamma!» affermai asciugandomi le lacrime e mettendo via il telefono.
Per il resto recitai.
Finsi di cadere dalle nuvole sia quando ricevetti la notizia, sia quando il notaio mi chiamò per il testamento e per le ultime volontà della mia vecchia. Le parole e le volontà di mia madre erano identiche a quelle che avevo letto prima di entrare nella cuspide. Quindi, esattamente come allora, non organizzai alcun funerale e feci cremare ciò che restava della salma. Quindi allertai mio padre mandandogli un’email.
Tutto come già vissuto prima di entrare la cuspide.
Così mi ritrovai al Lido di San Giovanni, ad Alghero, a spargere le ceneri. Lì incontrai nuovamente mio padre, come già successo. Era anche conciato alla stessa maniera: jeans, camicia e piedi nudi.
«Sei tu che mi hai contattato?» chiese.
«Sono io», confermai. «Mi dispiace se ti è sembrato un metodo freddo per avvertirti, ma non sei parte della nostra esistenza», mi giustificai.
Non replicò a quelle mie parole. «Ho un ricordo vago di tua madre», osservò invece, piuttosto algido, «ma effettivamente tra noi è accaduto qualcosa, ma non credevo che…»
«…che sarei nata io!» conclusi.
Esattamente come la volta precedente fece un cenno d’assenso, ed esattamente come allora chiese «posso offrirti un caffè?»
«Volentieri!» risposi però, cambiando le cose, o magari compensandole.
Così, davanti a un marocchino e un cappuccino, gli parlai di me, di Luce, di mamma e di mia nonna materna. Principalmente inventai, perché non avendo letto il quaderno con Snoopy in copertina, non avevo assolutamente idea di come potessero essere le nostre esistenze. Cercai di restare sul vago, confortata anche dal fatto che mamma e nonna erano ormai cibo per vermi, e che dunque non ci fosse probabilmente nessuno capace di smentire ciò che stavo dicendo a mio padre.
«E tu?» gli chiesi poi. «Che persona sei?»
«Sono un infermiere sposato con un medico. Ho due figli e mi piace il parapendio», affermò senza affetto, quasi forse a ribadire che, DNA escluso, tra noi non ci fosse alcun genere di legame. In fin dei conti erano trascorsi trent’anni da quell’unica volta che si era scopato mia madre.
«Se vuoi venire a trovarci, ci farebbe piacere», proposi comunque.
Mi sorrise vistosamente imbarazzato. «Tua madre era una bella donna, e magari anche una brava persona. Ma per me è stata la storia di una notte, anche se sei nata tu», disse con franchezza. «Se mi avesse contattato per occuparmi di voi, se lo avesse fatto all’epoca, mi sarei preso le mie responsabilità», aggiunse. «Se non è accaduto, significa che tua madre non voleva ci frequentassimo», concluse.
Conoscevo quelle parole. Le avevo pronunciate io due universi prima. Però due universi prima ero sola e non mi importava di nessun’altra persona che non fossi io; ma ritrovando Luce, mi sentivo responsabile nei suoi confronti. Si assomigliavano i due universi, ma erano anche profondamente differenti.
«Non voglio che ti comporto da padre con me», gli dissi. «Ma vorrei che mia figlia avesse un nonno. Non far pagare a lei l’egoismo di mia madre».
Era un signor discorso, volendo, oppure semplicemente tante belle parole messe lì così a beneficio di nessuno.
Alla fine dovetti rivalutare la mia vecchia. Mia madre non mi aveva tenuta lontana da mio padre per egoismo, per calcolo o per chissà quali strambe ragioni. Mi aveva tenuta lontana da lui semplicemente perché sapeva che se ne sarebbe sbattuto.
In tutti gli universi in cui capitai, Papà non conobbe mai Luce, né si fece mai vivo anche solo via posta elettronica per chiedere se stessimo bene o male. Gli mandai due volte gli auguri per Natale, ma non mi rispose. Alla fine lasciai stare.

Tornando però al giorno di quel caffè, che poi erano cappuccino e marocchino, capitò un episodio piuttosto particolare mentre rientravo da Alghero. C’erano delle case in costruzione all’ingresso di Sassari, e il cartellone con la grafica del come sarebbero state mi incuriosì. Non sono mai stata una che si lascia abbindolare dalla pubblicità, ma quella volta fu diverso. Rallentai e parcheggiai vicino al cantiere.
«Perché sei qui?» chiese qualcuno alle mie spalle.
Era Gabriele.

Le dimensioni contano – Parte 46

Quel bang; quello sparo secco che profumava di polvere bruciata e metallo; quel colpo di pistola che fischiava nelle mie orecchie per pochi frame esistenziali; quella pallottola in acciaio sfumato rossastro che si avviluppava attorno al proprio asse; quel proiettile che si muoveva quasi al rallentatore in direzione del mio viso; insomma, quel bang fu l’ultima percezione, l’ultimo sentimento e l’ultimo istante che trascorsi nella cuspide. Non ci entrai mai più.
«Cazzo!» berciai di soprassalto quando mi risvegliai.
«Mamma», rispose un’assonnata giovane voce femminile.
Nel letto di fianco al mio individuai Luce, mia figlia. Era tornata; o meglio, ero io a essere tornata in un universo dove c’era lei. Sorrisi e mi commossi. Avrei voluto abbracciare la bambina e riempirla di baci. Ma la osservai chiudere gli occhi e riaddormentarsi: non mi andava di disturbarla. Tempo minuti e anche io ripresi sonno.

Al risveglio feci il punto della situazione. Diedi però prima fuoco al famigerato quaderno con Snoopy in copertina, senza nemmeno leggere cosa ci fosse scritto all’interno. Volevo scoprire le cose man mano che accadevano, perché sapevo che le altre me potevano mentire oppure omettere. Restando in argomento “bugie”, mia madre era teoricamente ancora viva. La cuspide mi aveva infatti rispedita indietro nel tempo di cinque giorni.
«Mi prude il culo!» osservò elegantemente quella principessina di mia figlia, un’oretta più tardi, mentre le abbottonavo il grembiule azzurro.
«Non si dice, tesoro», la ammonii dolcemente.
«Lo dici di continuo», osservò lei, pedante e irritante. Era tutta sua madre.
Le diedi un bacio sulla fronte. «Non fare come me!» suggerii con fermezza.
Accompagnando Luce a scuola feci alcune considerazioni: uno, dovevo comprare un New Beetle, perché il Mini aveva una frizione troppo pesante; due, ero credente, perché in caso contrario non potevo giustificare il rosario impiccato al supporto dello specchietto retrovisore; tre, mia figlia adorava i Modà e Caparezza, che personalmente consideravo come il mio atroce anticipo di pena infernale. Ma se la frizione del Mini mi stava affaticando i polpacci, la famigerata Vengo dalla Luna mi stava frantumando le ovaie, e Luce che ci cantava sopra non mi era d’aiuto.
«Perché non cambiamo stazione?» proposi.
«Perché non stanziamo cambione?» replicò la bambina in modo irridente, prima di sollevare il volume da 4 a 8.
Mi irritai. Mi chiesi come mai le precedenti me non avessero sentito l’istinto di soffocare Luce nel sonno, trasformandola invece in una scassapalle di fame mondiale. «Piantala», dissi severa. «O ti faccio il culo piatto a suon di calci in culo».
«Hai detto “culo”!» affermò divertita prima di sputarmi una caramella contro la tempia.
«Ora ti ammazzo», minacciai. Tuttavia lasciai stare, anche perché nell’universo in cui mi trovavo l’infanticidio era illegale.
La situazione non migliorò certo quando arrivammo a scuola. Ebbi appena il tempo di ascoltare mia figlia dare della “mongoloide” a una coetanea, tra l’altro dopo averla spinta violentemente contro un parete, che venni convocata dalla maestra.
Ero piuttosto abituala alle stranezze degli universi paralleli. Dunque non mi sorprese trovarmi al cospetto della moglie di Ivan; né mi scandalizzò la foto sulla sua scrivania: Ivan era ancora vivo, e si faceva immortalare seduto in un prato assieme a moglie, cane e due figli vestiti da bambolotti froci.
«Di cosa voleva parlarmi?» chiesi.
«Tua figlia è eccessivamente aggressiva!» affermò preoccupata la moglie di Ivan, anche se guardandomi con una certa dolcezza. «Ed è perfida in maniera irragionevole. Dovresti farla vedere da uno psicologo, perché in caso contrario dovremmo espellerla».
Sollevai le spalle. «Cercherò di essere più severa», promisi.
Mi fissò e scosse il capo, sorridendo in modo materno. Era strano, ma quella donna era stata un pezzo importante del mio passato, sia come moglie del mio amante, sia come amante a sua volta. Eppure in quell’universo non significavo niente per lei: non ero che una delle tante madri con le quali aveva a che fare ogni giorno.
Gli universi mi avevano insegnato che potevo essere speciale oppure insignificante all’interno dell’esistenza della medesima persona. Era sempre e solo una questione di circostanze.
«La bambina sta soffrendo», disse ancora la moglie di Ivan. «Le manca il tuo compagno», rivelò.
Feci un segno di assenso con il capo. «Lo so», mentii, perché non aveva assolutamente idea chi potesse o meno essere stato il mio compagno. Forse non era stata un’ottima idea eliminare il quaderno con Snoopy in copertina senza nemmeno dargli un’occhiata. Ma oramai non potevo più tornare indietro, a meno che non rientrassi nella cuspide. Promisi alla maestra di Luce, aka moglie di Ivan, aka mia ex lesbo-scopamica, che avrei provato ad arginare la prepotenza di mia figlia, quindi mi congedai.
Composi il numero di mia madre, ma non rispose. Riprovai, ma nulla. Mi richiamò dopo due ore. «Sto andando a fare un’immersione», disse la mia vecchia concitata, ma felice. «Dovevi dirmi qualcosa?»
Risposte possibili:
1. un motoscafo sta per macellarti;
2. ho bisogno di te per sapere chi era il mio compagno;
3. volevo solo augurarti una buona giornata. Già che ci siamo, buona immersione.

Le dimensioni contano – Parte 45

«Quelle come noi non figliano dal marito. E c’è sempre un amante di mezzo», spiegò mia madre.
«Sono un’eccezione magari», ipotizzai. «Tu e nonna avete avuto una figlia. Io invece ho avuto un maschio».
La mia vecchia mi fissò perplessa. «Tu dopo aver partorito sei andata a Londra a cercare quel tizio biondo, Gabriele, no?»
Sospirai. «Anche se è inquietante, riesco a far sesso con Gianni», replicai. «E visto che non c’è traccia di Gabriele negli universi dove sono stata negli ultimi anni, trovo molto più probabile che sia Gianni il padre di mio figlio», affermai esasperata. «E comunque se non lo fosse, non mi fregherebbe un cazzo!»
Era vero. Avevo trent’anni ed ero stanca dei colpi di scena. Qualsiasi cosa mi aspettasse, non sarebbe stata meno pesante di ciò che avevo già passato. Soprattutto perché inseguire e cercare le persone lontane, perché provare a mettere il mondo sottosopra per provare a scovare chi, per motivi differenti, non era parte della mia quotidianità? Se Gabriele era padre di mio figlio, significava che in un momento passato tra me e lui c’era stato qualcosa. In tal caso allora, perché non aveva provato a cercarmi?
«Devo andare, stasera vado a pesca e devo preparare l’attrezzatura», disse mia madre, dandomi un bacio sulla fronte. «Poi quando hai tempo vieni a sistemarmi il coso del digitale terrestre, perché sono incapace», osservò infine, prima di allontanarsi. Furono le sue ultime parole.
La mia vecchia morì nel pomeriggio, durante un immersione in mare assieme ad un suo amico. Un motoscafo non vide la boa di segnalazione e li tranciò entrambi, quasi di netto, con l’elica del motore fuoribordo.
Venni avvertita verso le otto di sera, e vi risparmio la mia reazione.
Il mattino successivo venni dimessa e organizzai il funerale. Ero impegnata con il beccamorti quando ricevetti una telefonata: era un notaio. Mia madre aveva fatto testamento, a cui aveva allegato alcune parole per la sottoscritta.

Figlia mia.
Se stai leggendo queste parole, significa che è successo… Sappiamo entrambe che potresti salvarmi, perché è uno dei pochi aspetti positivi della nostra esistenza. Tuttavia ti prego di lasciare le cose come sono. Ho avuto una vita interessante, quindi va bene così. Il notaio conosce i recapiti di tuo padre, che vorrei tu informassi della mia morte.
Un’ultima cortesia: non organizzarmi nessun genere di funerale, sarebbe squallido e inutile, oltre che uno sperpero di denaro. Il mio corpo può essere utile alla ricerca medica, e inoltre non credo che un prete, rabbino o qualsiasi altro stregone abbia competenze sul destino migliori delle nostre.
Abbi cura di te.

Malauguratamente non potevo donare il suo corpo alla ricerca medica, salvo non interessasse un cadavere più macinato della carne per ragù. La feci cremare allora e rispettai il suo desiderio di non avere esequie.
Le ceneri le sparsi qualche giorno ad Alghero, nel Lido di San Giovanni, dove incontrai mio padre per la seconda volta in tutta la mia vita. Era alto, biondo, bello; aveva effettivamente delle belle mani come aveva sempre raccontato mia madre. Indossava una camicia nera e le sue gambe lunghe e strette stavano bene dentro i jeans. Era scalzo e aveva un’aria serena.
Si avvicinò a me e sorrise. «Sei tu che mi hai spedito un’email qualche giorno fa», mi chiese gentilmente.
Annuì.
«Ho un ricordo molto vago di tua madre», ammise imbarazzato. «Effettivamente ricordo di averci fatto sesso una volta, ma non credevo che…»
«…che sarei nata io?» domandai.
Fece un cenno d’assenso con il capo. «Posso offrirti un caffè?»
«No grazie», dissi. «Sarebbe imbarazzante e melenso. Se mia madre avesse voluto che ci frequentassimo, ci avrebbe presentati molto tempo fa».
Nessuna obiezione da parte sua.
Quella sera mi vennero le mestruazioni e il mattino successivo mi risveglia nella cuspide.
Ero di nuovo legata, nuda e con un braccio mozzato. Ma non durò a lungo. La porta si aprì ed entrò un infermiere. Era alto, biondo, belle mani. Sorrise, era mio padre. Sorrisi anche io. Poi mi puntò una pistola alla testa e Bang!

Le dimensioni contano – Parte 44

Al risveglio non ero più a Londra. Ero nuovamente a Sassari e abitavo da sola. Il blog era scomparso, e all’interno del vinile di Love Will Tears Us Apart non c’era alcun numero di telefono. Ancora una volta dovevo ricominciare tutto da capo. Teoricamente avrei dovuto portare pazienza, quella virtù che Giacomo Leopardi aveva definito eroica. Ma in fin dei conti Giacomo Leopardi era un segaiolo depresso, dunque le sue verità per una come me contano meno di un cazzo.
«Risveglio inter-dimensionale?» mi chiese mia madre quando ci incontrammo nel pomeriggio, per prendere il solito tè assieme.
Le raccontai la dimensione precedente: Gherardo, il vinile dei Joy Division, il blog, il mio viaggio a Londra.
«Davvero ho ferito e torturato un uomo?» domandò alla fine.
Annuii. «Perché non hai mai provato a ucciderti dopo che mi hai messa al mondo?» cambiai però argomento.
«Perché tua nonna non era capace di badare a te», spiegò. «Sono stata in universi in cui a causa sua ti mutilavi con oggetti trovati nel capanno».
A quel punto ripensai a un episodio accaduto quando ero molto piccola. Mia nonna si era chiusa in camera con un suo amico giardiniere. Rimasta sola, mi ero fiondata nel deposito attrezzi e avevo provato ad accendere la motosega, poggiando però il piede sulla lama. Se non fosse stato per l’intervento di mia madre, spuntata dal nulla, probabilmente ci avrei rimesso l’arto.
«Cazzo!» esclamai perplessa.
Negli ultimi anni avevo sempre nutrito astio nei confronti della mia vecchia. Eppure se non fosse stato per lei, avrei trascorso gran parte della mia vita con un terribile handicap. Mi sarei persa tante cose: la pallamano in adolescenza; la mia passione adulta per la corsa mattutina; il piacere di guidare un auto senza i comandi al volante.  Soprattutto non avrei goduto di gran parte delle scopate occasionali  – ma appaganti – capitatemi negli anni con quasi-semi-sconosciuti incontrati in discoteca: un arto di meno inibisce notevolmente il desiderio altrui, e anche se non dovrebbe essere così. Sad but true!
«Che c’è?» chiese mia madre, che fissavo in modo insolito.
«Ti odio», le mentii.
Mi sorrise, ma i suoi occhi mi ricordarono Luce. Mi mancava mia figlia, ma per molto tempo dovetti farmene una ragione.

Trascorsero sei anni, che vissi passivamente.
Scopavo poco e solo quando non ne potevo più di masturbarmi. Non viaggiavo mai, né andavo al cinema o a qualche cazzo di mostra o sagra (come usano i 30enni sardi). Il mio solo hobby era il jogging, che praticavo da sola all’alba. Avevo un lavoro, che tuttavia cambiava da universo a universo. A volte ero segretaria, altre direttrice marketing, oppure web designer o brand manager, e qualsiasi altro neologismo anglofono che nasconda un incarico per una laureata brava con power point. Ho sempre sospettato che mi assumessero per altri ragioni, se con “altre ragioni” si intende la 4 coppa C che mi sorreggeva le mie adorate tette.
Poi un giorno, mentre facevo cose da laureata tettona brava con power point, mi feci male. Una dozzina di faldoni di documenti mi franò sulla schiena, fratturandomi un braccio. Oltre al dolore, per la gioia di Leopardi, dovetti attendere pazientemente per tre ore al pronto soccorso, dove entrai in codice “bianco Ace” (che più bianco non si può). Infine qualcuno si occupò di me.
«Il dottore sarà qui a breve!» mi disse un’infermiera anoressica, che si presentò come Paula, con la “u”.
Paula era magra e alta. Sembrava Mick Jagger, ma meno femminile. Aveva forse trent’anni, ma tossiva in continuazione. Insomma, non sembrava scoppiare di salute; eppure lavorava in ospedale. La odiai. Ma non per la tosse, la somiglianza con Mick Jagger, l’anoressia o la “u” nel nome di battesimo. La odiai perché il dottore che mi visitò era la copia sputata del medico che mi aveva torturata nella cuspide. Fu inquietante.
«Era lui», dissi il mattino successivo mia madre, venuta a trovarmi in ospedale.
Ma l’argomento cuspide non piaceva alla mia vecchia, che da ormai tre lustri continuava a ripetermi di ignorare ciò che mi capitava là dentro. «Da quanto non vedi tuo figlio?» mi chiese invece.
«Saranno due o tre giorni».
In realtà erano due settimane. Vedevo il bambino solo per scoparmi Gianni, il mio grossolano ex marito. Pancia grossa e cazzo piccolo, erezione incostante, igiene spesso appena accentuata, preliminari terrificanti. Eppure lo trovavo eccitante. Inoltre farmi sbattere tiepidamente da un uomo insoddisfacente ma che mi odiava, e che faceva anche la mia parte per crescere un figlio che non trattavo come tale, mi faceva paradossalmente credere di avere una famiglia. In fondo è così che sono le vere famiglie: pessimo sesso, ipocrisia ed egoismo dilagante.
«Continui a far sesso con quell’orrido coso?» chiese a un certo punto mia madre.
Le sorrisi. «È il padre di mio figlio, in fin dei conti!»
«Teoricamente no», rivelò lei.

 

Le dimensioni contano – Parte 43

«Perché sono affari miei», risposi quando mia madre mi chiese il perché anche io le nascondessi le cose.
«Avresti dovuto farlo invece», mi disse lei. «Seguimi».
Mi portò in camera sua, aprì l’armadio e prese una grossa valigia. La aprì. All’interno c’erano oggetti che riconobbi come miei, anche se non ricordavo di non averli mai visti prima. Tra le tante cose, il vinile di Love Will Tears Us Apart. Sul booklet era stato appuntato un numero di telefono.
Il prefisso, portava direttamente a Londra. Dall’altra parte rispose una voce maschile, che riconobbi.Mi sentii più felice di una trentenne ciccione che riceve un pompino da Pamela Anderson. Era il mio primo “marito”, l’uomo con cui ero sposata in un’altra serie di universi. Era Gabriele, il biondo, il palestrato.
«Sono io», dissi con tono festoso.
Ci fu un breve silenzio, poi la telefona si interruppe. Provai a richiamare ma dall’altra parte non rispose nessuno. Provai una terza volta, ma nulla. Ugualmente le successive. Essendo un numero fisso, non potevo nemmeno spedire un sms. Riprovai tante volte nelle ore successive, vanamente.
Determinata, provai a chiamare anche da cabine telefoniche e da casa di una mia amica, ma ogni volta che sentiva la mia voce, Gabriele interrompeva la conversazione.
Non mi arresi e feci un biglietto per Londra. Sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio e, come spesso capita quando cerchi qualcuno di cui non conosci né nome né indirizzo in una città abitata da milioni di abitanti, non lo trovai. Grazie al cazzo!
«Dove sei?» chiese mia madre quando le telefonai alcuni giorni più tardi: volevo che mi mettesse altri soldi sul conto.
«Sul pianeta terra».
«Molto dettagliata», replicò sarcastica la mia vecchia. «Sai perché non ti dico le cose?» aggiunse cambiando tono.
«Perché sei una stronza?»
«Perché ogni volta che prendiamo una decisione gli universi si sdoppiano: in un universo ti dico la verità e in quello immediatamente parallelo ti racconto una bugia. Se non ti dico nulla, evito la creazione dell’universo dove mento».
«L’omissione di verità non è comunque una bugia?» osservai brillantemente.
«Marcellus Wallace ti sembra una puttana?» scherzò lei.
«Non fa ridere. E comunque che cazzo c’entra?»
«Il meccanismo degli universi è come Marcellus Wallace. Ti conviene starne fuori, se no ti fanno fuori», disse. «Quindi se non parlo, non sto né mentendo, né rivelando la verità», aggiunse, rivelandomi che la spiegazione le era arrivata dal mio patrigno, Giovanni/Marco/Matteo/Luca.
Eniuei… in quale universo mi trovavo? In quello dove mia madre mi aveva detto effettivamente la verità, o in uno in cui mi aveva appena raccontato una cazzata. Inoltre pensai anche a Marcellus Wallace. Secondo me, a mio modestissimo parere, per il poco che potessi capirne di puttane, con la giusta parrucca, ben truccato, e vestito come Dio comanda, Marcellus Wallace sarebbe sembrato una puttana, anche se transessuale.

Pernottavo in una specie di motel in prossimità dei docklands, assieme a tedeschi, polacchi e nigeriani che spacciavano droga a tedeschi e polacchi. Girai per Londra per circa tre settimane. Non trovai mai Gabriele e ogni volta che provavo a chiamarlo mi chiudeva la chiamata. Infine mi vennero le mestruazioni. Non fu piacevole, anche perché significava dover cominciare ancora una volta da capo. Soprattutto poteva voler dire allontanarmi nuovamente dall’uomo che amavo.
Un’ora dopo, il mio cellulare squillò.
Era lui. «Vediamoci», mi disse.
Ero felice e triste contemporaneamente. Ero felice di incontrarlo, perché provavo sentimenti nei suoi confronti e perché speravo di avere risposte. Ma ero triste perché sapevo cosa mi aspettasse una volta addormentata. In ogni caso, io che andavo in giro in maglione, jeans e converse all star, quella volta mi precipitai a comprare un bel vestito e un paio di décolleté ocra con il tacco. I capelli li feci acconciare e mettere in piega dalla parrucchiera, ma solo dopo aver fatto le unghie e la ceretta dall’estetista.
L’appuntamento era nel cuore di Londra, davanti al Big Ben, alle 18.00. Arrivai in largo anticipo, poco dopo le cinque e mezza, ma lui era già lì. Era bellissimo, lo era sempre del resto. Le altre persone tra un universo e l’altro ingrassavano, perdevano i capelli, dimagrivano, o passavano dall’essere flaccide a muscolose. Lui no: era sempre meraviglioso. E quel giorno, quella sera a Londra, Gabriele era più meraviglioso di tutte le altre meravigliose volte in cui era stato meraviglioso. Oddio, scrivo come una che ha provato il cazzo per la prima volta, ma posta sui social il suo presunto amore per un idiota che l’ha semplicemente usata per svuotarsi le palle.
«Ciao», dissi sorridente, quando si avvicinò.
Non rispose. Mi baciò. Mi baciò a lungo, per diversi minuti. Poi mi prese per mano e mi portò a casa sua. Avrei dovuto far domande durante il tragitto, ma ero rapita dal suo profumo, dalla sua vicinanza, da come mi faceva sentire fuori dal tempo.
E avendo il ciclo, fu quasi automatico dare piuttosto che ricevere. Però non fui dispiaciuta di appagarlo, di succhiarlo tante volte e sentirlo venire nella mia bocca. Così come fu assolutamente piacevole poggiare attesta sul suo petto e lasciarmi accarezzare i capelli. Malauguratamente, le sue carezze furono così rilassanti che mi addormentai. E il mio risveglio fu prevedibilmente malinconico…