Candore Niveo

Nevicava. Nevicava come spesso ci si dimentica. Nevicava dunque, nevicava come quando ci si caga per il freddo mentre il mondo attorno viene dipinto di bianco, nevicava come quando anche i rami spogli degli alberi risplendono di un candore niveo.
Le mamme trentenni tenevano i figli per mano, i figli quarantenni tenevano le madri per mano, e c’era chi, spalando la neve, si fermava poggiando il mento sul bastone della pala ad osservare madri e figli presi per mano.
Poi c’ero io, appoggiato a una balaustra dell’ingresso laterale della stazione degli autobus; avevo le mani in tasca e le gambe incrociate protese in avanti; mi reggevo pericolosamente su uno dei talloni sfidando la scivolosità del pavimento ghiacciato.

Si avvicinarono in due. Non sembravano venditori. In genere i venditori sorridono e ti danno del lei anche se hai 13 anni. Questi avevano più l’aria da fondamentalisti religiosi, di quelli pronti ad armarsi per combattere un qualsiasi dio diverso dal loro. Ma non era la religione il punto. Mi ero fermato non dovevo sostare: quella postazione era un negozio, anche se non vi erano insegne.
Non feci domande, non ne ebbi il tempo. La neve, da bianca, divenne rosa. Sputai altro sangue solo quando venni colpito la seconda volta.
Che la neve sia fredda non é un segreto, ma quando ci si cade sopra, dopo un calcio allo stomaco e un pugno che ti devasta il labbro, la sensazione di gelo è molto più intensa.
Sarebbe stato carino che qualcuno mi chiedesse se stessi bene; sarebbe stato opportuno che qualcuno chiamasse la polizia. Invece venni invitato a spostarmi, perché così, inginocchiato, disturbavo il passaggio di tanti altri stronzi che il giorno dopo si sarebbe potuti trovare nella mia stessa condizione.

«C’é un ospedale non lontano da qui, ti ci faccio accompagnare se vuoi»
«No grazie», risposi, «preferisco un caffè a una flebo».

Era vero: preferivo un caffè caldo alla sala d’aspetto del pronto soccorso, pronto soccorso in cui sarei entrato con codice trasparente. Dopo l’aggressione non potevo piagare ulteriormente la mia giornata con una lunga fila in compagnia di ipocondriaci e madri apprensive in attesa che un dottore 25enne, scaricato nel turno peggiore, mettesse a referto un livido e un’abrasione.
Il caffè giunse, lo pagai. Arrivò anche un croissant alla crema che tuttavia venne offerto dal barista. Lo ringraziai e gli sorrisi nonostante il labbro rotto. Quindi cercai un tavolo per farmi apaticamente i cazzi miei.
Fuori nevicava, la neve creava una cornice bianca sulla finestra del bar e se la finestra del bar fosse stata la tela di un quadro io sarei stato il dipinto di un trentenne con il volto pestato e lo sguardo frustrato.
Paradossale che la frustrazione aumenti di fascino se la incorniciamo con un bianco niveo e candido.

If I Should Fall From Grace With God

Era come se ci spogliassimo dai compagni di viaggio: non eravamo destinati ad amplificare i luoghi comuni sugli italiani dispersi a Londra, o a sciorinare un english scolastico dalla pronuncia forzata e improbabile. Dovevamo andare più Nord, in un’altra isola. Capivi la differenza quando i cartelli stradali erano scritti in gaelico. Eri lontano dal resto del mondo civilizzato e probabilmente da quell’universo estero che immaginavi. Ti stavi avventurando in una terra abbastanza radicata alle proprie origini da ricordarti la tua. Letterkenny stava li, con il suo clima freddo e i tanti passanti che sembravano usciti da un video dei Pogues. Era un luogo fatato, con quell’atmosfera da cittadina nata per caso in mezzo ai villaggi dispersi in the middle of nowhere. Era proprio in un villaggio che ci attendevano, non troppo distanti forse, ma abbastanza isolati, con un ponte romano a fare da unica attrazione. Non capii subito se e chi tra i coinquilini si fottesse mia cognata. Fu la sorella a illuminarmi, mentre un francese o belga chiacchierava con uno slang irritante.

Il mattino dopo mi svegliai sul divano-letto della sala, tutto puzzava di fumo, Mark compreso che mi guardava seduto su una sedia. Mi fece cenno di seguirlo, lo assecondai e mi trovai all’aperto, ancora al freddo, con un tipo che sembrava uno squatter vestito da squatter che parlava una lingua sempre diversa le poche volte che apriva bocca. Tornammo a Letterkenny, in quello che doveva essere un deposito abbandonato ma in cui tra sacchi a pelo e banchetti si sprecavano gli skinhead. Chiesi se fosse la sede di una firm ma non ottenni risposta. Mi offrirono una birra che rifiutai: erano le 8 del mattino, forse nemmeno. Mark li chiamava “Friends of mine” ma, dal mio punto di vista, non avevano facce esattamente friendly. No, con loro non parlavo questo mix di italiano e termini anglofoni che sto usando con voi ora, anzi, non parlavo proprio. Semplicemente mi sentivo nei guai, perché tra teste rasate e tatuaggi l’impressione era quella di trovarmi in una qualche sede dell’I.R.A.
Mark comunque adorava bere gratis. Uno dei suoi presunti amici parlava un poco di italiano: mi disse di aver lavorato sulle navi tra Newcastle e Genova e alla fine scoprii avesse avuto a che fare con i Grifoni. Per un attimo gli Holligans mi spaventavano meno di qualsiasi altra cosa. Poi vi fu ancora il silenzio e tu fissavano tutti, non eravamo graditi nemmeno per un cazzo. Mark sembrava non averlo capito o forse non gli importava. Chiese da mangiare e lo ottenne. Chiesi se potessi fare un offerta o qualcosa del genere, ma il tipo che parlava italiano mi disse di lasciar stare, che fossero abituati ai tipi come lui.
«Se giri con Mark rischi una coltellata, Beware! Torna a casa».
Ok, beware!
Obbedii, perché sinceramente tra le tradizioni del Donegal la coltellata era l’ultima che mi attraeva. Mi congedai da Mark, che protestò.
Mi trovai per strada, ma dopo un quarto d’ora, anche meno, non sapevo come tornare a casa: mi ero perso. Avrei chiesto informazioni, ma parlavo un pessimo inglese e con il gaelico stavo a zero.
Camminai finché non trovai un ristorante e speravo qualcuno mi capisse, ma era un covo di tedeschi, peggio che andar di notte.
Alla fine mi aiutò una ragazza spagnola: disse di essere stata a Verona anche se io capii Ravenna. Mi indicò dove comprare i biglietti per il Bus per tornare al villaggio.
A casa mi aspettava una lavata di capo, mi dissero di non seguire più Mark, che fosse pericoloso e via discorrendo; come se fosse colpa mia. Certo, avrebbero potuto avvertirmi la sera prima, per esempio, ma questa é un’altra storia.

Firstime In Boston – Rock And Roll

Sedeva al proprio tavolo. Sorseggiava bourbon, bourbon vero, di quello secco che, quando non hai una brutta storia da dimenticare , non riesci a mandare giù. Aveva occhi grandi e un modo convulso di guardarsi attorno. Sembrava inquietato da qualcuno o qualcosa. Forse aveva dei debiti, forse era in bolletta o, più semplicemente, il suo era un modo singolare di farsi i cazzi propri.

Lo avevo riconosciuto: sapevo chi fosse e non so se gli fece piacere, però non finse di essere qualcun altro.

Non volevo un autografo, tanto lo avrei perduto o nascosto chissà dove. Volevo parlargli, e raccontare quanto i suoi riff mi avessero allietato e alienato molte giornate. In fondo la sua chitarra mi aveva aperto la mente alle sfumature british del rock più romantico. Sorrise con sufficienza. Mi disse di essere fuori dal giro, di non avere più ascoltato i dischi e di sentirsi disturbato quando uno dei suoi brani veniva passato in TV come sottofondo. Al contrario non gli dispiaceva parlare di musica, e finito il bourbon definì “rock and roll” solo ciò che fuoriusciva dalla Telecaster.

«Il vero gain», disse, «non lo ottieni da un fuzz, ma dai polpastrelli»

Su questa perla si accese una sigaretta. Lo fece con un’eleganza disarmante, quasi efebica, metasessuale. Poi mi raccontò dei primi live e dei primissimi adepti ovattati dalle droghe che seguivano la band. Raccontò di come non fosse cambiato nulla secondo, le guerre c’erano ancora, come il razzismo e l’iniquità sociale. Era disilluso e borderline, e lo era soprattutto per le occhiaie, per le movenze raffinate. Si esprimeva con l’elegante tono disincantato di chi aveva consapevolmente scritto pagine importanti nella storia del Brit Pop. Aveva un modo frettoloso e impaziente di parlare e muovere le mani, e usava un’eccessiva violenza nell’etichettare il suo passato come “dead“. Sembrava che immortali ci fossero solo quei riff di cui nonostante tutto parlava ancora volentieri.

Gli pagai un altro bourbon e mi congedai. Lui mi disse che la sera dopo avrebbe suonato assieme ad alcuni amici in un pub poco distante. Io avevo il biglietto per casa già fatto e dunque me lo sarei perso. Ma forse è stato meglio così: ho corso il rischio di assistere al teatrino di un nuovo palloso percorso acustico, o peggio ancora folk, di chi un tempo, con discreto successo, ha dato un sound all’eroina e all’esasperazione giovanile. In fondo mi ero trovato al cospetto a una forma glam di vivere la tarda adolescenza.

Morì sei mesi dopo.