Ci sono centinaia di treni che ogni settimana lasciano questi maledetti binari. Centinaia di treni che puzzano di pendolarismo o emigrazione. Una decontestualizzazione a quattro mori delle forze armate e del disagio giovanile. Tuttavia si fa la fila nei cessi; si fa la fila perché gli amabili vecchietti potrebbero essere pedofili travestiti da amabili vecchietti, e magari non restano a lungo in bagno per questioni di prostata, ma per pratiche onanistiche. Nel frattempo è finito il sapone. Disdetta.
Accendo il lettore, lo accendo mentre osservo il mio volto riflesso nello specchio sozzo di slogan all’uniposca e sborrate notturne. Parte Zero degli Smashing Pumpkins e tutto sembra migliore. Quindi la porta si apre e il bagno centrale si libera. Non c’è carta igienica, ma in compenso uno stronzo grosso quanto un gatto è parcheggiato sul lato della turca. Sollevo le spalle e abbasso la zip: cazzo fuori. Mi metto a pisciare direttamente sulla merda per vederla spappolata dal mio getto.
Mi laverei le mani ma il sapone è finito. Ho dei fazzoletti, ma non li ho qui, li ho lasciati a casa. Mi accontento del dorso dei miei jeans, tanto chi se ne frega di qualche goccia di piscio quando si possiede una lavatrice. Un passante mi chiede da accendere, ma non fumo. Una ragazza mi chiede qualche spicciolo per comprarsi un cappuccino: la accontento, anche se so bene che ci si comprerà una dose. Del resto non ha la faccia da cappuccino.
Una suora mi sorride. Ricambio nonostante la blasfemia sia uno dei miei hobby preferiti. Poi controllo, gli orari ignorando che stia cercando una partenza tra gli arrivi. Il bigliettaio mi guarda, mi osserva: è malato credo. Ha una di quelle malattie ai nervi che ti costringono a stare seduto. O magari no. Magari sono io che sto facendo casino tra i sintomi. Poi tossisco, osservo il dorso della mano e fingo di non vedere il sangue. Sono debilitato, respiro e sorrido. Non sono credibile.
Come per dove? Per casa no? Ho la faccia di chi torna a casa, il malumore di chi torna a casa, le occhiaie di torna a casa, lo scarso entusiasmo di chi torna a casa, il volto scavato di chi deve tornare a casa anche se non ne ha voglia. C’è una cappella, entro e mi inginocchio, anche se non sono molto credibile. Sono opportuno come un orso polare all’equatore. Chiamo, ma nessuna risposta. Forse il mio orgoglio mi rende sordo, o forse quel recapito non esiste. Non resisto.
Entro nella parruccheria di fianco. Non c’è nessuno, mi fanno sedere sulla poltrona. Mi mettono quel cazzo di camice che mi sembra una parafrasi del cappio e quindi arriva la fatidica domanda.
«Come?»
Non so rispondere. È da tanto che non faccio i capelli per me. Le ultime volte non dovevo tagliare troppo perché Lei si arrabbiava. Ma stavolta posso tagliarli quanto diavolo voglio. Sorrido amaramente. Ho gli occhi arrossati e la faccia stanca. Il parrucchiere non legge tra le righe e mi racconta una stupida a barzelletta a sfondo pornografico, che nonostante tutto mi strappa una risata. Ma non ho ancora risposto, diamine, e il barbiere non ha tempo da perdere.
«Zero».
Il mio riflesso, lo specchio sporco.
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