Il mio nome è Karen Jackson e questa è la mia storia. Quando vedo gli adolescenti baciarsi mi parte Ever Fallen in Love dei Buzzcocks. Un poco per invidia e un poco perché ho visto troppe volte le repliche di Scrubs. Per ciascuna JD c’è una Elliot, ma io non ho ancora capito quale sono tra i due. A volte sono una compilation di insicurezze e tendenze all’autolesionismo che trova conforto solo nei meandri del proprio monologo interiore. Altre volte sono un’egocentrica repubblicana bianca figlia di una famiglia a reddito medio-alto convinta che le persone circostanti siano solo delle pallide comparse tra una scopata e l’altra. Quel che so di certo è che questo è l’ultimo giorno della mia inutile vita. A breve un autobus non si fermerà allo stop, schiacciando e annientando tutto quello che ho imparato alla Boston Latin School e poi alla scuola di giornalismo ad Harvard; tutti gli slogan da viziata malata di cazzo gridati da cheerleader; tutte le gite invernali nel Montana, trascorse a bere fino al vomito e a postare i miei lampi di tristezza glam attraverso il sorriso perfettamente bianco dei miei selfie su Instagram; tutte le promesse fatte a James, abbastanza facoltoso da fare felice mie madre e abbastanza dotato da fare felice me. Perciò non menatemela con Morrissey, ché non ci vedo nessun piacere o privilegio nel crepare ventitreenne, non se l’autobus non è quello rosso e doppio, e tantomeno qui, diamine, nel quartiere caraibico di Boston, dove mettono i cartelli “No Whites” all’ingresso delle caffetterie e dove mi sento emotivamente lontana dalle costruzioni vittoriane di Beacon Hill e da quell’aria un po’ europea che renderebbe meno squallida e deprimente la mia dipartita. Dio, non farmi morire in mezzo ai fottuti cubani! (continua)
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