C’è una vecchia canzone dei R.e.m., che adoro, le cui liriche parlano di talune parole particolari. La conosci?
Il mio vicino di casa, quando ero bambino, possedeva un Dobermann.
All’epoca, la razza canina tedesca aveva una nomea di pericolosità, e non era ancora di moda, come invece si usa oggi, lasciar aggredire i propri figli da ferocissimi Pitbull.
Il Dobermann, che non aveva né gli occhi rossi né la bava alla bocca, si chiamava Sansone. Lo so, Sansone in teoria è un alano (senza “h” davanti), ma quanti gatti conosci che si chiamano Pippo? E quanti pastori tedeschi che si chiamano Pluto?
Ecco, il Dobermann, che non abbaiava come nei film comico-polizieschi con Eddie Murphy e Brigitte Nielsen, si chiamava Sansone e, ironia della sorte, aveva una strana predilezione per i postini; un poco come l’alano dei cartoni.
Ops, quasi dimenticavo: Sansone, che era un Dobermann e non un alano, aveva l’ano.
Non ridi?
Dovresti ridere. Sto raccontando, senza risparmiare gioviale ironia, un aneddoto divertente.
Lo so, forse l’averti rinchiusa in una gabbia non è stato divertente; né lo è stato costringerti a mangiare cibo per cani per quattro giorni.
Sono un tipo singolare, un assassino molestatore sadico dotato di originalità; per quanto non sarò mai creativo quanto il mio vicino di casa che, come già detto almeno altre due volte, chiamò il proprio Dobermann, come un alano.
Già che siamo in tema: come sta il tuo ano? Il salsicciotto in gomma, che ci ho infilato con invereconda brutalità due giorni fa, ti disturba?
Sanguini ancora?
Ecco un aspetto che detesto di alcune vittime: l’assenza sangue.
Non è cortese non sanguinare. Come non lo è non piangere, implorare o gridare per il dolore.
Non è semplice ingegnarsi per concepire trattamenti sempre più agghiaccianti.
Mettiti nei miei panni: passo intere serate a riflettere sulle atrocità da destinarti, e non è un compito lieve.
L’idea di fondo, che poi è quasi un asintoto di brutalità, è spingersi verso sevizie il cui ricordo renda insonni e frustranti le notti dei parenti delle vittime.
Per questo, e altri motivi, ti fotografo con tanta cura, perché voglio che i tuoi cari possano passare un’esistenza tormentata dalla consapevolezza dell’inutile, e soprattutto ingiusta, sofferenza a cui ti sto esponendo.
E poi è una questione di rispetto: non posso trattare tutte le vittime alla stessa maniera; devo essere originale, se no diventate solo numeri, semplici statistiche. Sarebbe scorretto.
Non uccido numeri, ma persone, e ogni vittima deve essere ricordata per la modalità singolare in cui è stata tragicamente martoriata.
Comunque, tornando al Dobermann Sansone, avevo letto un libro che cominciava con una premessa particolare: i seriali, intesi come assassini seriali, spesso vivono soli. In fondo per trovarmi sarebbe sufficiente circoscrivere la ricerca a chi abita da solo e ha esperienze in lame e macellazione.
Forse gli investigatori non hanno letto il primo capitolo di quel libro, così come voi 14 vittime.
Ops, che sbadato: non ho concluso il discorso sul cane.
Tornando al Dobermann del mio vicino, ora ti mozzerò un piede e lo farò masticare a un Pitbull che, ironia della sorte, ho chiamato Dobermann.
Detto questo, sii cortese: sanguina, urla, piangi e implora, se no tutta questa violenza è ingiustamente sprecata.
Ti infastidisce se, nel mentre, canticchio una vecchia canzone dei R.e.m. le cui liriche parlano di talune parole particolari? Magari la conosci, fa così: