Le dimensioni contano – Parte 41

La storia di Gherardo, l’uomo ferito al piede, se vera, era affascinante. Era un emigrato italiano a Londra che aveva cominciato lavorando da aiuto-cuoco, e che dopo tre lustri di vita monastica e sacrifici era riuscito a comprarsi un proprio ristorante. Per alcuni anni era stato uno tra gli chef più apprezzati nel Fulham, prima di dilapidare tutto alle corse di cavalli. A quel punto si era dedicato all’attività che riesce meglio agli italiani all’estero: lo spaccio di stupefacenti.
«Come mi conosci?» gli chiesi, dopo che lo facemmo accomodare sul divano, offrendogli un tè caldo. Una situazione apparentemente pacifica, ma piuttosto bizzarra considerando che quell’uomo avrebbe zoppicato a vita per colpa di mia madre.
«Uscivi con mio figlio», spiegò. «Non so se fossi la sua fidanzata», continuò, «ma vi ho visti tante volte assieme».
«A Londra?» si sincerò mia madre.
L’uomo annuì, ma non aggiunse altro. Mia madre si voltò per un riscontro da parte mia, ma sollevai le spalle: non ricordavo, e dunque non potevo verificare. Nel quaderno con Snoopy in copertina non era menzionato alcun viaggio a Londra. Però due universi prima mi ero risvegliata proprio nella vecchia Inghilterra. La mia vita era come un puzzle da 1000 pezzi, anche se nella scatola ne avevano messo solo la metà.
«A Londra frequentavo un tizio di nome Giovanni, o Matteo, o Luca, o Marco?» chiesi a quel punto, ipotizzando che in qualche modo centrasse il mio patrigno. «Un uomo sui 45, fisico o fotografo o qualcosa di simile».
«Cosa significa?» chiese Gherardo, disorientato da quella strana serie di informazioni fin troppo vaghe.
Sembrava un orso polare a lezione di greco antico: non aveva capito una sola parola. Sembrò anzi stordito e per certi versi dissociato. Tempo pochi secondi e crollò sul pavimento, espellendo un muco schiumoso dalla bocca. Mia madre lo soccorse, sempre che con “soccorse” si intenda “spogliarlo completamente, quindi trascinarlo in cantina e legarlo a una sedia in attesa che si riprenda da una dose massiccia di sonnifero”.
«Gli hai sciolto il sonnifero nel tè?» chiesi alla mia vecchia mentre il povero Gherardo si risvegliava.
«Taci!» chiosò lei, tanto per cambiare.
Mia madre osservava quell’uomo, pronta a fargli del male pur di farlo parlare. Era determinata e aveva uno sguardo che non le avevo mai visto prima. Ancora una volta, la mia vecchia mi sorprese, rivelandomi notizie che non aveva condiviso al momento opportuno.
«Perché mia figlia ha smesso di tenere un diario?», chiese quando l’uomo si risvegliò.
«Non ne ho idea», rispose lui.
«Che diavolo stai dicendo?» chiesi invece io.
Mia madre sorrise. «Tu ti fideresti di una come te?» mi chiese in modo fastidioso. «Pensi davvero che nello stramaledetto quaderno di Snoopy che lasci vicino al letto ci sia solo la verità?» scosse il capo. «Povera scema!»
«Fottiti!» commentai nervosa.
Gherardo nel frattempo provò inutilmente a liberarsi, ma mia madre era piuttosto brava a fare i nodi: dovevo farmi dare qualche lezione, mi sarebbe potuto tornar utile.
«Perché mia figlia ha smesso di tenere un diario?» chiese ancora.
Ma l’uomo non rispose.
«Te la sei cercata…» constatò mia madre.
Il suono del trapano mi ricordò la cuspide e, terrorizzata, mi voltai per non vedere, anche se la mia vagina eccitata grondava come le ascelle di un ciccione che ha corso la maratona in maglione di lana. Mia madre invece, perfettamente a proprio agio, spappolò l’orecchio sinistro del povero Gherardo, il quale cominciò a gridare. Fu tanto breve, quanto inquietante. In ogni caso, avevo già ottenuto una risposta: il sadismo lo avevo preso da mamma.
«Vieni via», mi disse trascinandomi fuori mentre Gherardo continuava ad urlare.
Obbedii. «Quando è che mi dici le cose come stanno?» le chiesi una una volta fuori dalla cantina.
«Non c’è molto da dire», replicò lei. «Tra mezz’ora capirai».

«Perché mia figlia ha smesso di tenere un diario?», chiese nuovamente mia madre, mezz’ora dopo, mentre il povero Gherardo la osservava con occhi sbarrati. «Rispondi! Se non lo fai, ti metto i piedi dentro un secchio di soda caustica».
«Non ha smesso», rispose lui con un filo di voce. «È tutto sul blog».
Secondo quel tizio avevo un blog, una roba del genere firstimeinlondon. Inizialmente finse di non ricordarsi l’indirizzo, ma poi cambiò idea dopo che mia madre gli cavò via un incisivo con un paio di pinze da fabbro. Il sadismo che si percepiva in quella cantina non lo si poteva respirare nemmeno da Maynard, in Pulp Fiction. Sentivo la puzza di merda penetrare anche nelle pareti, oltre a quella di vomito e piscio. Il poveraccio continuava a singhiozzare, ma dandomi l’indirizzo del blog mi aveva letteralmente fornito l’accesso a quei segreti che io stessa avevo nascosto.
«Addio Gherardo», affermai mettendo fine alla vita di quel poveraccio.
«Caz-zo!» sillabò paradossalmente spaventata mia madre, osservando l’uomo sgozzato spirare nella sua cantina. «Perché diavolo lo hai ucciso?» chiese.
Non risposi. «E tu come sapevi che questo stronzo mi avrebbe rivelato del blog?» domandai invece.

Le dimensioni contano – Parte 40

Dall’altra parte della strada individuai l’uomo che circa un anno prima avevo incontrato nel Fulham. Come spesso capitava, era magro anche se lo ricordavo grasso. Però era ancora basso, brutto e calvo. Aveva tutte le dita nelle mani.
Non sembrò esattamente felice quando ci accorgemmo di lui, visto che provò a scappare. Io non potevo certo seguirlo, visto che avevo i punti nella fica. Mia madre, che invece era molto pigra, si diresse lentamente verso il bagagliaio dell’auto, aprendolo. Tirò fuori un fucile da caccia. Quindi prese delicatamente la mira e centrò il fuggitivo alla caviglia.
«Porca puttana madre di Harvey Lee Oswald, ma dove hai imparato a sparare a quella maniera?» chiesi sorpresa, ma per nulla scioccata dall’aver appena assistito a un ferimento.
«Non sono cazzi tuoi», rispose la mia vecchia con la sua solita dolcezza da Labrador.
Ferito alla caviglia, l’uomo di Londra restò riverso sul marciapiede. Urlava come se gli avessero sparato alla caviglia. (Ridete! era una battuta) Era piuttosto improbabile che mia madre volesse interrogare quel poveraccio in mezzo alla strada, anche perché a breve sarebbero arrivate decine di curiosi. La mia vecchia mi fece segno di rientrare rapidamente in auto e ce la filammo. Fu piuttosto eccitante, e mi sentivo anche notevolmente umida tra le cosce.
«Gli hai sparato per sadismo?» chiesi a mia madre mentre guidava.
Scosse il capo. «L’ho fatto perché andava fatto», spiegò sibillina, tanto per cambiare. «Se a lui mancava un dito nell’altro universo, da questa parte a qualcuno doveva sparire un arto».
Logico, ma inutile: nella cuspide mi mancava tutto un braccio. Mi venne allora il dubbio che a mia madre piacesse il sangue quanto agli orsi piace il miele. Per certi versi non credo mi sbagliassi, visto che la osservai serena e compiaciuta. Inoltre quel tizio ci serviva vivo e tutt’altro che incazzato con noi: sparargli non mi sembrava il modo migliore per portarlo dalla nostra parte. Mia madre aveva però una teoria differente a riguardo: «verrà a cercarci ancora», disse. «Se ci ha trovate, significa che ci stava seguendo», spiegò, «e se ci stava seguendo, probabilmente ha bisogno di noi», concluse.
«Hai intenzione di sparargli ancora?» domandai preoccupata.
Scosse il capo. «Solo se strettamente necessario». Dunque voleva sparargli nuovamente.

Trascorsero due giorni, durante i quali non vidi mai mio figlio. Incontrai invece Gianni, l’uomo con cui ero sposata. Era un quarantenne con enormi sopracciglia tipo Elio degli EELST, mascella da pugile e prepotenza da scaricatore di porto tenuto in cattività per un ventennio. Le sue mani, sporche e callose, erano un monumento alla noncuranza; l’alito era quello tipico di chi mastica carogna e non chewing-gum; i movimenti goffi, la voce lagnosa e una tendenza imbarazzante alla bestemmia, completavano il quadro del troglodita che mi aveva messo un anello al dito. Mi chiesi in quale universo avrei mai e poi mai potuto far sesso con un essere del genere. La risposta era fisiologica. La mia vagina infatti era più umida e agitata dell’Oceano Pacifico durante un uragano.
«Mi devi 200 euro», disse Gianni. «Oppure tornami il cellulare che ti ho regalato il mese scorso».
In altri contesti lo avrei mandato a cagare, ma temevo che violentasse ancora la lingua italiana e lo accontentai. Mia madre aveva una zuccheriera con gli “spiccioli”, come diceva lei, da cui presi quattro cuccuzze da 50 euro. Ma non era tutto: il mio quasi-ex marito mi raccontò che un uomo, la cui descrizione corrispondeva alla perfezione all’individuo di Fulham che si era beccato una pallottola sul piede da parte di mia madre, si fosse presentato a far domande sul mio conto.
«Tieni la gentaglia che hai conosciuto a Londra lontana da nostro figlio», minacciò.
Semplice a dirsi, complesso a farsi: non sapevo chi avessi o meno conosciuto a Londra, né chi fosse pericoloso e chi no; soprattutto non c’erano appunti che potessero aiutarmi a ricordare e non capivo il perché.
In ogni caso rassicurai il troglodita, fregandomene del fatto che potessi mantenere o meno la promessa. In quel momento volevo semplicemente liberarmi di lui, oppure possederlo sul tappeto di casa di mia madre, impalandomi sul suo cazzo come un tonno al mercato del pesce. Purtroppo, con grande disappunto della mia patatina, vinse il “liberarmi di lui”. Per trovare sollievo, mi masturbai con quello che credevo il dildo, delicatamente, perché i punti nella vagina ancora dolevano.
«Da quanto hai un vibratore sulla Jacuzzi?» chiesi a mia madre una volta uscita dal bagno.
«Non ho un vibratore», mi informò ridendo. «Ti sei sollazzata con una boccetta di profumo».
«Aveva la forma di un cazzo», opinai inquieta.
«Amore», affermò con affetto. «Al giorno d’oggi tutto ha la forma di cazzo».
Due ore più tardi ricevemmo visite: dando ragione a mia madre, l’uomo di Fulham
venne a cercarci. Aveva un piede fasciato, e l’aria di chi cercava aiuto bussando a casa di Freddy Krueger. Eppure per la prima volta dopo anni ricevetti risposte chiare alle mie domande.

Le dimensioni contano – Parte 39

Al rientro dalla cuspide ero traumatizzata. Ricordavo di essere stata molestata, scopata, percossa, umiliata. L’unica nota positiva era stata il giovane infermiere, che di tanto in tanto era venuto a leggere a voce alta di fronte a me e a confortarmi.
La permanenza nella cuspide era stata un incubo lucido che avrei voluto dimenticare, ma che mi provocò un’angoscia che mi trascinai nella nuova dimensione. Mi risvegliai in ospedale, ancora incinta, mia madre al mio fianco, seduta su una sedia e mezza addormentata.
Mi teneva per mano.
Bizzarro: a me e lei piaceva tenerci per mano, quanto a Hitler piacevano gli ebrei.
«Che succede?» le chiesi.
Mi fisso perplessa e si commosse. Ventiquattro anni di vita, di cui la metà trascorsa a rimbalzare come una palla da flipper tra universi differenti tra loro, e mai una volta che avevo visto mia madre commuoversi. Nemmeno per la morte della nonna, alla quale presumo la mia vecchia avesse vissuto chissà quante volte e chissà in quali differenti circostanze. Stavo per dirle di non piangere, che risultasse ridicola, ma piansi anche io.
«Ti voglio bene!» esclamai improvvisamente.
Porca puttana stucchevole e zuccherosa fino a un diabete caria denti e smoscia-palle: da quando dicevo certe stronzate tipo film di Meg Ryan? Da quando mi veniva così naturale dirle? Ok, venivo da un universo dove un dottore mi aveva ficcato un cacciavite nella fessa, ma c’è modo e modo di affrontare le vicende. Per certi versi preferivo le torture piuttosto che parlare come Candy Candy con quelle due zoccole di Suor Maria e Miss Pony.
«Temevo non ti svegliassi più», mi disse in lacrime mia madre.
A quanto pare avevo provato a uccidermi. Ma per quale motivo? E soprattutto, la bambina si era salvata?
«Come sta Luce?» chiesi immediatamente, preoccupata.
Mia madre scosse il capo, perplessa. «Chi è Luce?»
La fissai. «Mia figlia», affermai. «La chiamerò Luce!»
Qualcosa non andava, me ne accorsi da come venni guardata: «Tu aspetti un maschio. Non sei la stessa persona di ieri, vero?»
Non lo ero. La cuspide in genere mi rispediva indietro nel tempo di qualche giorno, nello stesso universo da cui arrivo. Quella volta invece ero stata mandata in una dimensione completamente differente e soprattutto illogica. Ero in età per avere una figlia, non un maschio; o almeno così credevo.
Giorni dopo partorii uno splendido poppante, che si prese mio marito, assieme alla casa e tutto il resto. Gianni, così si chiamava un consorte di cui incontrai solo l’avvocato, aveva chiesto la separazione e l’affidamento del pupo, per via del mio, a quanto pare, quinto tentativo di raggiungere anzitempo l’oltretomba. Non mi interessava far oppormi al divorzio, tanto nel giro di un mese mi sarei ritrovata altrove.
Mi dispiaceva per quel bambino, che sarebbe cresciuto senza madre. Ma ero anche felice per lui, perché essendo maschio non si sarebbe spostato da un universo all’altro.

«Gli universi si compensano, no?» chiesi a mia madre, mentre tornavamo a casa dall’ospedale. «Da una parte ho una bimba che cresce solo con la mamma e viaggia tra gli universi, dall’altra un bambino che sta con il padre e non viaggia».
Mia madre non mi rispose e si fermò. Parcheggiammo in una piazzola che si apriva su uno strapiombo. Era il punto in cui nella cuspide avevo ucciso mia madre, quello dove in altri universi era avvenuto l’incidente motociclistico costato la vita a Marco/Giovanni/Luca/Matteo e, solo alcune volte, a Barbara. Nessuna tra me e la mia vecchia voleva buttarsi di sotto: volevamo solo osservare la pericolosità della natura, che aveva imparato a rispettare dolorosamente.
«Ho avuto solo te», disse mia madre, guardando sotto. «Tua nonna ha avuto solo te», aggiunse. «Non possiamo avere figli maschi», continuò. «Hai tentato tante volte il suicidio», ricordò inquieta. «E gli universi si compensano», concluse. «Nell’universo da cui vieni, cosa ti capitava?»
Le raccontai delle torture, della prigione, del braccio amputato, dell’essere spesso narcotizzata o allucinai. Le descrissi il dottore e soprattutto l’infermiere.
«Come erano le loro mani di queste persone?» chiese.
Ci pensai, ma mi resi conto di non averle guardate. Poi mi ricordai di un dettaglio importante: «avevano entrambi i guanti», dissi.
Mia madre non aggiunse altro, ma parve stranita. Io avevo però bisogno di risposte, o quanto meno di un confronto. C’erano argomenti che potevo affrontare solo con lei, perché lei era l’unica che li conosceva.
«Nell’altro universo», cominciai, «quello in cui sono rimasta per dieci mesi prima di rientrare nella cuspide», specificai, «mi sono svegliata a Londra», raccontai. «Sia tu, che un tipo cinquantenne incontrato nel Fulham, e che cercava il figlio, sapevate qualcosa del padre di Luce, la mia bambina». Mia madre ascoltava senza dire una parola. Poi indicò l’uomo dall’altra parte della strada.
«O porca puttana anglofona!»

Le dimensioni contano – Parte 38

Il risveglio nella cuspide fu il più terrificante di sempre.
Mi ritrovai al buio. Nessuna fonte luminosa illuminava il luogo in cui mi trovavo. Non vedevo nulla, tanto che inizialmente pensai di essere diventata cieca.
Quel luogo era gelido. La temperatura nell’ambiente circostante era molto bassa, credo sotto i dieci gradi della scala celsius. La superficie su cui ero poggiata, composta di un qualche materiale ceramico, era leggermente bagnata e puzzava di detergenti a base di varechina.
Gli odori erano ancora più raccapriccianti. Il fetore di sudore si mescolava a quello delle mie feci e delle urine. Sentivo la cute appiccicosa, un fastidioso prurito alla vagina, all’attaccatura dei capelli, sotto le ascelle, dietro il collo e nel buco del culo, ma non potevo grattarmi.
Ero immobilizzata. Non avevo alcuna sensibilità al braccio sinistro, mentre il destro era incatenato per il polso a chissà cosa, e leggermente sollevato. Anche le gambe erano legate, assicurate per le caviglie. Non ero però paralizzata. Provai e riuscii a contorcermi, anche se vanamente. Mano e caviglie erano assicurate con un qualche materiale metallico, che infatti lacerò la mia pelle quando tentai a “strappare”.
Provai a chiamare aiuto; ma la mia bocca si aprì senza riuscire ad emettere alcun fiato.
Era tutto inquietante. Non si percepivano rumori né all’interno della stanza, né dall’esterno. Non c’erano nemmeno spifferi d’aria che potessero quantomeno dare una parvenza di vita a quel luogo. Oltre all’essere cieca, ipotizzai anche di esser sorda e muta. Infine mi credetti prigioniera di una bara.

Passò del tempo: furono forse dieci secondi o dieci anni, non saprei dirlo. Ogni tanto mi addormentavo o perdevo i sensi. Ma ad ogni risveglio, a ogni momento di semi-lucidità, la situazione non mutava. Ero immobilizzata in un luogo freddo, buio e insonorizzato. Mi sentivo fottuta più della moglie di Rocco Siffredi dopo la prima notte di nozze.
Avendo tempo, provai a concentrarmi sul poco che potevo carpire da quella situazione. Ma ero anche devastata da una forte emicrania, e sentivo la bocca perennemente impastata e le miei narici enfatizzavano ogni singolo odore che percepivo in quello strano luogo. Erano inoltre piuttosto frequenti le allucinazioni, o le voci distorte da cui mi svegliavo di soprassalto. Ipotizzai che fossi sotto effetto di farmaci, e probabilmente non mi sbagliavo.
Poi la luce.
Capitò improvvisamente, e fu scioccante. Alla mia sinistra venne aperto un portone in acciaio e un fascio luminoso piuttosto flebile riuscì comunque ad abbagliarmi. Feci appena a tempo ad accorgermi di essere stesa sul pavimento, completamente nuda e coperta di lividi. Le miei caviglie sollevate, il braccio destro ancorato alla parete e il sinistro amputato a metà avambraccio.
Entrò qualcuno. Camminava con passo rapido e deciso. Si accovacciò su di me e mi infilò un ago sotto il collo. Non era certo il più docile degli infermieri, visto che mi ficcò quell’affare in vena con la stessa premura che si usa con la persona che ha violentato tua figlia minorenne. Fu piuttosto doloroso, e quando provai a divincolarmi venni schiaffeggiata.
In pochi attimi la mia vista si annebbiò e mi spensi rapidamente come una vecchia Seat Marbella in mano a un sedicenne che non sa ancora usare la frizione.
Al risveglio mi ritrovai in una sorta di sala operatoria.
Ero ancora una volta legata. Come sollevai la testa, più indolenzita del culo del Derek di American History X dopo che gli fanno il servizietto in doccia, mi resi conto di essere vincolata da una camicia di forza. Gli occhi mi facevano maledettamente male e dovetti chiuderli quasi istantaneamente. L’odore che percepivo invece, fatta eccezione per la pelle della camicia di forza e il disinfettante, mi suggerì che quegli stronzi dei miei carcerieri, o presunti tali, mi avessero lavata: non sentivo più la puzza della mia merda.
Mi si avvicinò una persona in camice bianco, presumibilmente medico, un uomo basso e tozzo, con una bizzarra pettinatura “afro-bianca” alla Paolo Mingone, sui sessant’anni di età. Di fianco a lui un ragazzo giovanissimo, a cui altrove avrei dato sedici anni; era vestito da infermiere.
Venni visitata, e lentamente riprendevo possesso della vista. Nessuno diceva nulla e ovviamente, essendo incapace di parlare, non potevo certo esser io a far conversazione. È un poco come a tavola, dove sono i commensali a chiacchierare e non le bistecche di suino nei piatti.
In quei minuti guardai soprattutto l’infermiere. Era molto bello, sembrava quasi un angelo. Occhi verdi, labbra carnose, capelli biondi lisci pettinati con la riga da una parte. A un certo punto mi sorrise con un candore profondo, quasi paradossale per quella situazione. Ricambiai.
La tenerezza però durò poco. Il medico anziano, senza dir nulla, mi infilò un trapano nello sterno e cominciò a perforarmi.

Le dimensioni contano – Parte 37

Il cinquantenne incontrato a Fulham non mi cercò, né mi cerco suo figlio. Venni invece contattata dal alcuni fascio-nazisti che mi volevano bene, sempre che con “voler bene” si intenda “essere finanziati vita natural durante da un’italiana razzista, interdimensionale e ricca” Li ignorai, lungi da me passare altro tempo con gente del genere, con cui comunque condividevo molte idee del cazzo.
«Che vuoi?» mi chiese mia madre, tutt’altro che entusiasta, quando la contattai.
«Sono gravida come una giovenca da monta!» dissi sarcastica.
«Lasciami in pace», disse prima di chiudermi il telefono in faccia.
Mi accarezzai la pancia. «Tua nonna è una stronza», dissi al a un feto che immaginavo danzare nel liquido amniotico al ritmo di The Summer is Magic di Playahitty.
Pochi giorni dopo lasciai Londra per tornare in Italia. Per qualche settimana cercai inutilmente tutte le persone che avevano fatto parte della mia vita negli anni precedenti, ma esisteva solo mia madre. Nessuna traccia del biondo palestrato che una volta era stato mio marito, e di cui ero ancora innamorata. Discorso analogo per Marco/Giovanni/Matteo/Luca, per Barbara e Andrea con relative prole di figlie stronze, o per la “scopamici’s family of mine” composta da Ivan e la moglie: tutti crepati, mai nati o introvabili. L’ultimo della lista fu il dottor Lafitte, mio nonno, che scoprii era morto giovane, poche settimana prima della nascita di mia madre.
Alla fine mi arresi.
Passai i mesi successivi a mangiare, leggere, riposare e non fare sforzi, sempre che con “riposare e non fare sforzi” si intenda “farsi succhiare la fessa da feticisti che adorano le donne incinte”. Fu divertente, anche se spesso rimorchiavo gentaglia scovata nel sottobosco di mirc, di cui all’epoca ero un’assidua frequentatrice. Qualcuno tra questi personaggi voleva essere legato al letto, ed erano quelle per me le occasioni più appaganti. Una volta legata la vittima, la ferivo con lame di vario genere. Era divertente osservare quella gente urlare di dolore, spesso perdendo il controllo della vescica. Ma soprattutto, era bello ascoltarli chiedere pietà mentre i loro cazzetti duri mi imploravano di continuare a massacrarli. Quasi dimenticavo: in quell’universo mi eccitavano gli uomini minidotati.
Tuttavia non scopavo solo con i tiny cocks.
Mancavano sei settimane al parto, quando Alba si presentò a casa mia. Passammo un’intera mattina a “sforbiciarci”, leccando tutto ciò che potevamo leccarci e saltando il pranzo. Parlammo solo nel pomeriggio, mentre prendevamo il tè in terrazza. L’idea era quella di lasciarci accarezzare dal vento gentile che soffiava quel giorno, ma quella brezza poetica si trascinava dietro la puzza della merda cagata dal grosso alano, chiamato banalmente Sansone, che pascolava nel giardino dei miei vicini di casa.
«Sembri felice», constatò Alba, sorseggiando da una tazza color arancio raffigurante Will Coyote e sfiorandomi la fessa con l’alluce del piede sinistro. «Si vede che scopi!»
«Hai ragione» confermai laconica.
Ma più che il sesso, a rendermi felice era il non viaggiare. Senza il ciclo non mi spostavo tra gli universi, e dunque vivevo un’esistenza simile a quella delle altre persone. Era bello abitare nella stessa casa per più di un mese, e non vedere la gente attorno a me sparire all’arrivo del mestruo. Soprattutto ero felice di potermi lamentare della cacca di Sansone per un periodo superiore ai 28 giorni. Mi piacevano le abitudini, anche quelle brutte. La consideravo la mia prima vera vacanza in ventitré anni.
«Sai già se è maschio o femmina?» chiese ancora Alba.
«Femminuccia», dissi sorridente.
Per una donna la gravidanza è un momento speciale, e la prima lo è ancora di più. Ogni aspetto è una meraviglia assoluta e non confrontabile con nessun’altra esperienza umana: la prima ecografia; il primo ascolto del cuore del bimbo; l’attimo in cui la ginecologa comunica il sesso. Mi ero goduta quasi tutto, escluso il momento in cui mi veniva detto che avrei avuto una bimba. Lo sapevo già, perché mi era stato insegnato che noi viaggiatrici interdimensionali potevamo avere solo una figlia a ventitré anni: lo diceva mia madre, lo diceva mia nonna, lo diceva l’agenda rossa del mio patrigno.
«Wow!» commentò Alba evidentemente sorpresa.
Non aggiunse altro, oltre al fatto che mi volesse bene, che fosse fiera di me, e che fosse felice di diventare “zia” – lei lo virgolettò scuotendo le dita come il Mr Evil in Austin Power. Avrei dovuto rispondere a tono, ma avevo appena inghiottito un pezzo di limone e ruttai. Quindi mi fiondai su di Alba per leccarle i capezzoli e ficcarle due dita nella fessa, sempre che con “due” si intenda “tutta la mano”; ¡que viva el fisting!
«Le ragazze ti salutano», mi disse Alba, sudata come una scrofa dopo la maratona, mezz’ora più tardi.
Non so chi identificasse con “ragazze”. Forse le nostre ex inquiline.
«Ricambia», risposi tiepida. «Come mai sei qui?» tagliai corto. Nessuna sana di mente si sarebbe fatta tutti quei chilometri solo per una scopata. Non una come Alba almeno, che a quanto pare, secondo il quaderno con Snoopy in copertina, era la quintessenza dell’opportunismo.
«Pochi giorni fa mi ha cercata tua madre», rivelò imbarazzata. «Mi ha detto delle cose e mi ha pagato viaggio e albergo per venire in Sarfregna occuparmi di te».
Mancavano sei settimane alla nascita della bambina, e io e la vecchia non ci eravamo ancora incontrate, né parlate. Mai un colpo di telefono o una visita, non che io avessi alzato il culo per andarla a trovare o chiamarla. Però trovavo stupido che pagasse qualcuna per occuparsi di me. Trovai fastidioso soprattutto quell’ultimo aspetto, il fatto che pensasse che ero incapace di badare a me stessa.
«Sei una stronza!» dissi a mia madre quando rispose alla mia telefonata. «Sei solo una miserabile stronza».
«Ti è caduta la corona!» constatò sarcastica.
«Posso badare a me stesse. Lo faccio da sempre, perché tu non sei mai la stessa persona» le ricordai. «E ora fammi il sacrosanto favore di farti i cazzi tuoi in futuro».
«Tuo padre aveva delle belle mani, da pianista», cambiò argomento lei.
Per la prima volta in ventitré anni sapevo qualcosa relativamente a mio padre. «Vi siete incontrati una volta. Si è comportato in modo rassicurante», aggiunse.
«Fregacazzi», dissi inizialmente, poi cambiai idea: «Chi è?»
«In bocca al lupo per il parto, amore mio» glissò la mia vecchia.
La telefonata si interruppe.
Partorii mia figlia due giorni prima del mio ventiquattresimo compleanno. La chiamai Luce, come mia nonna. Quando vidi quell’esserino per la prima volta, sorrisi e mi scusai: non le avevo fatto un gran favore mettendola al mondo e se ne sarebbe accorta al momento del menarca.
Ventinove giorni dopo il parto, mi tornarono le mestruazioni e rientrai nella cuspide. Ciò che mi attendeva, era terrificante.

Le dimensioni contano – Parte 36

Dopo la telefonata feci una lunga doccia, mi vestii e mi concessi un giro per Londra. Abitavo dalle parti di Hammersmith e ciò non mi sorprese: l’80 % delle persone erano bianche, pochi neri, caraibici e asiatici. Essere razzista porta a scelte precise. A prescindere da certe convinzioni di merda, quella era una zona abbastanza interessante in cui abitare. Le costruzioni vittoriane e edoardiane di Brook Green, Riverside e Brakenbury Village, assieme ai parchi e le auto che procedevano a sinistra e non a destra, trasudavano un fascino assolutamente british che rendeva meno grave un “mal di Sardegna” che non avevo mai provato in passato – grazie al cazzo, non avevo mai lasciato l’isola se non per andare in vacanza.
Pioveva. «The summer is magic… shalalalà», canticchiavo ironica e anacronistica dirigendomi verso la Fulham Brodway Tube Station.
Una volta in stazione, poco vicino all’ingresso, un uomo mi afferrò per un braccio, tirandomi a sé. Fisicamente era più basso di me, arrivava a stento al metro settanta; ma era grosso come un frigorifero, e aveva la faccia minacciosa, nonostante la “pettinatura” in stile Lino Banfi. Credo che avesse una cinquantina d’anni, o poco meno.
«Ti avevo detto fuori Londra», sibilò costringendomi contro una parete, minaccioso. «E ora ripetimi quello che hai detto ieri».
«Non lo ricordo», dissi per nulla spaventata. Osservai la sua mano sinistra, era fasciata. Probabilmente l’anulare che avevo amputato era il suo. Ma non era quello l’aspetto più sorprendente. A Londra abitavano milioni di persone, quante possibilità c’erano che una persona mi trovasse con tanta velocità e casualità? Il destino, tanto per cambiare, mi prendeva abbondantemente per il culo, e senza la cortesia di una preventiva spalmata di vasellina.
«Hai abortito quel coso?» domandò minaccioso.
Cristosanto, no. Non potevo essere andata a letto con quel cesso d’uomo! Non poteva essere lui il padre di mia figlia.
«Rispondi, stronza», insisteva. Aveva un modo di parlare molto aggressivo, ma non provò minimamente a pestarmi. Non so se fosse rispettoso lui, o pericolosa io.
Non mi restò che scoprirlo: sollevai la gamba, la mia coscia era rivolta verso lo scroto del bersaglio; nonostante il tacco alto degli stivaletti in cuoio, ruotai il piede perno per bilanciare la contro-spinta del calcio; spinsi avanti l’anca e distesi la gamba, centrando perfettamente le palle del cinquantenne. Da come lo vidi contorcersi, mi resi conto di avere buona dimestichezza con il Taekwondo.
«Ora dimmi cosa sai», affermai avvicinandomi, poggiandogli la suola del piede destro sotto il mento e premendo. «Oppure ti taglio un altro dito, o un’altra cosa a cui tieni molto di più».
«Non lo farai».
«Potrei decapitarti. Tecnicamente risulterebbe circoncisione», minacciai ancora con il mio solito eloquio da contessa di Stock Hudson.
L’uomo mormorò qualcosa di incomprensibile, continuando a tenere le mani calcate sul basso ventre. Tossiva, il suo viso era paonazzo. Respirava con la bocca, gli occhi fessurati per via del dolore.
Attesi che si riprendesse, poi gli diedi una mano a sollevarsi. Passeggiammo quindi l’uno di fianco all’altra. Non c’era una meta precisa, anche perché in quel preciso momento non esisteva un solo posto al mondo dove mi sarei voluta trovare, o che fossi curiosa di visitare per la prima volta.
«Terrò la bambina», cominciai. «Ma ho preso un colpo in testa e non ricordo un cazzo delle ultime settimane».
Non mi credette. «Tu prendi un colpo in testa perdendo la memoria», opinò, «e poi vai nell’unico posto di Londra dove sei certa di incontrarmi?»
Sollevai le spalle. «C’è anche un “solito posto” fuori Londra», feci notare, riferendomi alla telefonata di poco tempo prima.
Gli chiesi se fosse lui il padre di mia figlia, ma non mi rispose. Gli chiesi come mai volesse vedermi, ma nessuna risposta a riguardo. Gli chiesi se fosse un neonazista e mi invitò a tacere. Il problema era che in quel momento aveva un vantaggio non indifferente nei miei confronti: a me servivano delle informazioni che lui poteva vendermi al prezzo che preferiva, e non necessariamente vere.
«Mio figlio mi aveva avvertito», rivelò poi. «Se ti fossi presentata da me a far domande strane, come effettivamente stai facendo ora, non avrei dovuto dirti un cazzo», affermò preoccupato. «Starò zitto, a costo di farmi ammazzare».
«Chi è tuo figlio?»
Nessuna risposta.
Avrei potuto insistere, e metterla su un piano diverso da quello verbale. Conoscevo le arti marziali del resto, e covavo una rabbia che mi trascinavo dietro da decine di universi. Ma non volevo rischiare: uno sforzo poteva costarmi un aborto e non volevo ripetere quel tipo di esperienza. Mi guardai attorno e osservai due poliziotti in lontananza: non dovevo rischiare.
«Se cambi idea», conclusi voltandomi verso l’uomo. «Cercami!»

Le dimensioni contano – Parte 35

Mi trovavo a Londra senza ricordare di aver mai pronunciato una sola parola in inglese in vita mia. Stando a ciò che lessi nel quaderno con Snoopy in copertina, abitavo con tre ragazze. Inoltre ero allergica ai latticini, alle uova, al nichel e al malto. «Sono anche allergica al cazzo?» chiesi sarcastica.
«Ben svegliata anche a te!» rispose una ragazza bionda, che dormiva nel letto di fianco al mio. Il suo nome era Alba e, da quanto diceva il quaderno, era la mia migliore amica. Mesi prima eravamo partite assieme a Londra per cercare lavoro. Interessante! Avevo migliaia di euro parcheggiati su un conto bancario, ma volavo in Inghilterra a fare la cameriera/schiava sottopagata in un ristorante gestito da due napoletani imbarazzanti che avevano chiamato i figli Diego e Armando, e che avevano assunto come capocuoco uno strafottuto pakistano che puzzava di Asia pestilenziale anche in fotografia; pakistano che a mio avviso usava il lavoro da cuoco solo come copertura, perché aveva una faccia da merdosissimo pusher.
«Sono razzista…» conclusi dopo l’ultimo ragionamento sul pakistano.
Alba sorrise. «Ma va?» chiese sarcastica.
Mi facevo schifo, ma non potevo mentire a me stessa: detestavo asiatici, mussulmani, ebrei, nord africani, neri, spagnoli, francesi, turchi, siciliani,napoletani, calabresi, campani, genovesi, “romanacci”, abruzzesi, bambini, uomini anziani, portatori di handicap – sui quali facevo ragionamenti che è bene non riportare -, rom, ambulanti, mendicanti, ingegneri, biologi, matematici, studenti di scienze dell’educazione (che definivo brutalmente “scienze delle merendine”), fanatici cattolici, testimoni di Geova e chiunque facesse indossare un cappotto a un cane. A questi andavano ovviamente aggiunti i fan di Marco Masini, Paolo Vallesi e dei Lunapop.
«Porca puttana!» berciai quando mi resi conto che avrei probabilmente augurato la morte a chiunque citasse Il secondo tragico Fantozzi. «Come cazzo fai a sopportarmi?» chiesi ad Alba.
«Non ti sopporto. Ma paghi tutto tu e me la lecchi piuttosto bene!» affermò con candore.
A quanto pare odiavo tutto, ma non cazzo e fica. «Sai che sono incinta?» mi informai allora.
Ci fu un lungo silenzio, ma dopo che la sollecitai Alba rispose. «Sì», replicò con voce sommessa. «Ma non devo parlarne», aggiunse. «Il patto tra noi è questo!»
«Quale patto?»
Non rispose. «Devo andare a lavoro», disse. «A dopo…» concluse prima di andarsene. Inutile provare a fermarla, anche perché sembrava turbata dalla questione Gravidanza a Londra – Prima Parte – Risvegli Razzisti.
Riassumendo: ero incinta da non so chi, razzista fino al midollo, ma anche lesbica e facevo sesso con la mia migliore amica, con la quale avevo stipulato un patto non citato nel mio diario. L’unico aspetto positivo era che a Londra nessuna radio avrebbe passato Vieni da me de Le Vibrazioni. Cercai altre informazioni in giro per casa, dove trovai le altre due inquiline. Avevano una non più di vent’anni, l’altra poco meno di trenta. Sembravano simpatiche, e con “simpatiche” intendo “si facevano i cazzi loro”. La più piccola era la classica italiana all’estero: dreadlocks, felpa di Bob Marley, jeans costosi e stivali con tacco coordinati alla borsa o alla cintura. L’altra era Jennifer; nome britannico, accento belga, passaporto spagnolo; collezionava pornografia bdsm, soprattutto foto, che scaricava costantemente da internet.
«Chi è il padre di mio figlio?» chiesi.
«Sei incinta?» replicarono in coro.
«No», sorrisi. «Scherzavo!»
Feci quindi alcune domande su eventuali fidanzati o frequentazioni, ma mi sentivo ripetere sempre la stessa cosa: ero una lesbica promiscua che non frequentava uomini. Ma a quanto pare avevo una certa passione per la cocaina, le risse e le riunioni nazifasciste poco fuori Londra.
«Sono il tipo di persona che normalmente prenderei a bastonate sulle gengive», considerai tra me e me quando rientrai in camera. Frugai tra le mie cose, e “tra le mie cose” significa “tra le cose mie e di Alba, ma soprattutto di Alba”. Nel guardaroba trovai indumenti; in bagno prodotti per il bagno – grazie al cazzo; nei cassetti le solite stronzate tipo carica-batterie, trucchi, qualche moneta persa chissà quando e l’immancabile Mein Kampf. Sotto il letto c’era polvere e una cassetta di pronto soccorso, al cui interno non trovai esattamente garze, disinfettante o cerotti.
«Porca puttana sverginata», imprecai tra i denti.
La cassetta conteneva un barattolo insanguinato, al cui interno erano conservate tre dozzine di denti umani e due dita mozzate. A una persona sana di mente sarebbe venuto da urlare, svenire o vomitare, ma il mio cervello fece invece una rapida e inquietante analisi di quei pezzi di carne. Uno era l’indice di un uomo adulto tra i venti e trent’anni, l’altro l’anulare di una persona anziana. All’interno della cassetta trovai anche un coltello a lama corta, che presumo fosse l’arma con cui avevo mozzato le dita di chissà chi.
«Esiste un universo dove queste cazzate non mi eccitano?» chiesi a me stessa e a un eventuale dio pagano in ascolto, mentre le mie mutandine si bagnavano come i tetti di Londra quando piove.
Ero ancora presa da questi ragionamenti quando sentii il telefono squillare. Risposi e dall’altra parte ascoltai una voce maschile. «Hai abortito quel coso?» domandò minacciosa.
«Chi sei?»
«Vediamoci fuori Londra», mi disse. «Al solito posto», aggiunse quindi, chiudendo di colpo la chiamata.
Ma nel diario non si parlava di un “solito posto” fuori Londra.

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Le dimensioni contano – Parte 34

«Il dottor Lafitte è tuo nonno», rivelò mestamente mia madre.
Impossibile. Mia nonna prima di morire aveva parlato di un inglese, e se la Geografia non mi ingannava, o se non mutava da universo a universo, tra Belgio e Inghilterra c’erano differenze notevoli. Inoltre non vedevo grandi somiglianze tra Lafitte e mia madre, esclusi gli occhi azzurri e le labbra carnose. Soprattutto, se io non sapevo nulla di mio padre, come poteva la mia vecchia sapere qualcosa del suo? Mi sembrava solo un colpo di teatro, e piuttosto mal riuscito.
«Nonna ha detto che ti ha concepita con un inglese», obbiettai infatti.
Mia madre sospirò. «Tua nonna ti ha mentito e…» si interruppe. «Lasciamo stare», riprese smettendo di guardarmi in volto. «Hai ragione tu, comportiamoci come due sconosciute, esci pure dalla mia vita», concluse.
Non so se sperasse che pronunciare quelle parole con tono apparentemente remissivo mi convincesse a cambiare idea, o a fidarmi ancora di lei. So che ero effettivamente stanca di non risposte o risposte elusive, e che non nutrii alcun senso di colpa quando me ne andai. In fondo mia madre aveva Andrea, e credo le bastasse: aveva un cazzo e credeva alle sue bugie.

Tornando verso casa individuai un luogo in cui ero stata prima di entrare nella cuspide. Era lo studio fotografico del mio patrigno, quello che si chiamava come il quartetto di evangelisti non apocrifi. Lo stronzo era ancora vivo e quando mi vide entrare non sembrò esattamente felice della mia presenza.
«Bentornata! A cosa devo il dispiacere?» cominciò tiepidamente, non appena si liberò di un cliente. «Sei venuta a scusarti?»
«Scusarmi di cosa?»
«Avevamo un appuntamento io e te», disse. «Un appuntamento a cui non ti sei mai presentata».
Sollevai le spalle. «Non mi ricordo», risposi sinceramente. «L’ultima volta che ci siamo visti stavo per entrare nella cuspide», rivelai con franchezza, omettendo ovviamente di averlo ucciso in quell’occasione.
Mi guardai attorno alla ricerca dell’arma del delitto, cioè l’affare girevole che funzionava con l’alta tensione. C’era, era poggiato su una mensola a pochi metri da me; ma era spento e scollegato dalla presa. Mi avvicinai incuriosita, più che altro per verificare la corrispondenza di quell’affare tra universi paralleli: sembrava identico a come lo ricordavo.
«Ho oggetti più interessanti di quel coso», rivelò Giovanni, o come diavolo si chiamava quel bastardo del mio patrigno. «E comunque è guasto!»
Peccato. Ogni oggetto capace di mandare al camposanto uno stupratore non meritava di guastarsi; in particolare se quella stuprata ero io.
Iperboli a parte, mi resi conto di una questione che mi era sfuggita: ero passata per la cuspide. Dunque la chiacchierata tra me e il mio patrigno – che dal mio punto di vista era avvenuta due universi prima – nella dimensione in cui mi trovavo non c’era mai stata. Di conseguenza potevo approfittarne per avere risposte sui nuovi sviluppi e sulle nuove cose che avevo scoperto, sperando che Giovanni non rispondesse in modo eccessivamente complicato.
«Posso farmi togliere le ovaie?» chiesi quindi.
Il mio patrigno sorrise. «Se ti sparassi in testa, moriresti?»
La sua non era una domanda, ma una risposta. Le sue parole però smentivano certi atteggiamenti che aveva avuto nei miei confronti prima che lo uccidessi l’ultima volta: sapeva che non potevo morire, eppure mi aveva messo in allerta per evitare che mi folgorassi. Non aveva senso. Mia madre non era dunque l’unica a mentirmi. Ora capivo perché in alcuni universi lei e il mio stupratore erano sposati: bugiardo con bugiarda, coppia eccellente.
«Prima di entrare nella cuspide ti ho ucciso», rivelai allora. «Ti ho spinto contro questo affare con l’alta tensione», aggiunsi.
Giovanni sorrise soddisfatto. «Vediamo se indovino: vedi quell’affare che emette un fascio colorato, ti incuriosisci, provi a toccarlo e io ti metto in guardia, avvertendoti che potrebbe ucciderti».
Deglutii. «No!» mentii.
«Bugiarda…» sussurrò compiaciuto.
Il mio odio nei confronti di quell’uomo era immenso e assolutamente irragionevole, molto più del fastidio che nutrivo ogni volta che in tv passavano il videoclip di Vieni da me de Le vibrazioni.
L’idea che Giovanni potesse prevedere le mie mosse mi dava letteralmente sui nervi. Stavo per andarmene ma il mio Nokia 3310 squillò: era un’amica di mia madre, Laura.
«Andrea è morto», disse in lacrime. «Un incidente a lavoro».
Il mio patrigno mi osservò sbiancare. «È morto il tizio che si scopa tua madre. Giusto?»
Non risposi. E con “non risposi” intendo “provai a colpirlo con una ginocchiata sullo stomaco”, se con “stomaco” si intende “scroto”.
«Se lo sapevi, perché non mi hai avvertita», chiesi dopo che schivò il colpo scostandosi, e facendomi finire contro la parete. Era stata più goffa di Duffy Duck quando prova a non sfigurare di fianco a Bugs Bunny.
Giovanni scosse il capo, ma mi porse la mano per aiutarmi a sollevarmi. «L’ho fatto, ti ho allertata; ma gli universi hanno probabilmente impedito che la notizia ti arrivasse», replicò con tono stranamente paterno. «Secondo il teorema di bla bla bla bla e bla bla bla bla bla…» Non lo ascoltai, né gli credetti; in realtà non ci capii nulla. Inoltre rischiavo di aggredirlo ancora, e farmi nuovamente e goffamente del male.
Mi dispiaceva per Andrea. Prima dei miei viaggi tra gli universi, lui e Barbara erano state le persone che mi ospitavano a casa nei weekend e che badavano a me quando mia nonna si faceva scopare da chissà chi; erano stati i genitori di Sonia, la mia migliore amica e compagna di ogni mia esperienza felice durante l’infanzia. Andrea aveva rappresentato un pezzo importante del mio passato “normale”, un frammento del mio essere stata uguale a tutti gli altri esseri umani unidimensionali.
Due giorni dopo mi venne il ciclo. Al risveglio mi ritrovai a Londra, in un appartamento condiviso con tre ragazze. Ero incinta.

Le dimensioni contano – Parte 33

«Farti togliere cosa?» chiese conferma mia madre.
«Le ovaie», le dissi bruscamente. «Senza quelle, niente ciclo. Niente ciclo, niente viaggi interdimensionali. Niente viaggi interdimensionali, niente che vita demmerda
«Nell’ultimo universo in cui mi trovavo», mi disse. «Eri incinta».
Sollevai le spalle. «Qui sono lesbica», affermai, fidandomi di ciò che era accaduto negli ultimi universi in cui ero stata.
«È la prima cosa che sento», rivelò però mia mamma. «Non ti ho mai conosciuta da lesbica».
Evidentemente non ero la sola a trovarmi disorientata in ogni universo in cui mi risvegliavo. Tuttavia mia madre voleva tornare sulla questione delle ovaie. «Provai come te a farmele togliere, ma nessun medico sembrava intenzionato a farlo. E non potevo certo permettermi una clinica privata».
Era una bugia! Il nostro conto in banca diceva che non solo potevamo permetterci di andare in clinica, ma che potessimo costruirne una tutta nostra, demolirla per capriccio e costruirne una seconda.
In ogni caso lasciai stare. Pretendere sincerità da mia madre era come provare a far esondare una diga pisciandoci dentro.
Nei giorni successivi, la mia idea di farmi espiantare le ovaie venne prevedibilmente disattesa da parecchi chirurghi. Nella mia famiglia non esistevano precedenti di tumori all’utero. Inoltre, almeno apparentemente, non c’era alcun motivo per giustificare un’operazione del genere. Alla fine sentivo ripetere più o meno sempre le stesse parole: “si tratta di un intervento rischioso e invasivo”; “se proprio non vuole avere figli, Signorina, usi i contraccettivi”; “esistono tanti farmaci per controllare l’ovulazione”.
Probabilmente se avessi parlato della mia situazione, se avessi rivelato dei viaggi interdimensionali, se avessi raccontato quanto era frustrante la mia esistenza, forse sarebbe andata diversamente. Ma quale medico mi avrebbe dato retta se avessi affermato che il ciclo mi faceva viaggiare per gli universi paralleli? Pensai nessuno, ma mi sbagliavo.
L’ultimo dottore, il belga settantanovenne Robert Lafitte, conosceva la mia situazione. «Altre due donne, parecchi anni fa, provarono questa strada», disse.
Mi illuminai. Non conoscevo nessun’altra che viaggiava tra gli universi e avrei fatto l’impossibile per conoscere la loro identità. Avrei magari provato a contattarle, incontrarle, parlarci. Ma l’ottimismo a volte rende ciechi molto più di una vita trascorsa ad ammazzarsi di seghe, o di un’intera infanzia trascorsa a terminare tutta la serie di Super Mario Bros affumicandosi le orbite con il NES. Le due donne di cui parlava il medico erano mia madre e mia nonna.
«Non ha funzionato», constatai amaramente. «Hanno avuto me, e viaggiano entrambe», dissi. «Anzi», mi corressi. «Mia nonna viaggiava, dato che oramai è morta».
Il chirurgo sembrò scosso. «Non lo sapevo», disse.
La conosceva, probabile se la fosse scopata; era in buona compagnia però, a mia nonna piaceva il cazzo come ai Bush piacevano i soldi dei sauditi. «Perché con mia madre e mia nonna l’operazione non ha funzionato?»
«Perché si sono tirate indietro», spiegò.
Ecco. Il chirurgo mi fece altre domande sulla morte di mia nonna, ma non gli risposi. Insistette ma mi congedai, anche se solo dopo essermi fatta assicurare che mi avrebbe comunque operata.
Ero felice, ma anche turbata. Diventare madre era stata una priorità per un solo mese in tutta la mia vita, mentre smettere di viaggiare era un desiderio che covavo da più dieci anni; ma c’era una domanda che mi frullava in testa.
«Cosa ti ha convinta a concepirmi?» chiesi a mia madre quando la incontrai per pranzo.
Sorrise, ma non mi rispose. Insistetti, ma vanamente.
«Carina questa canzone», commentò invece all’ennesima fastidioso passaggio per radio di Vieni da Me de Le Vibrazioni. «Tra quanto dovrebbero venirti?» si informò in modo irritante.
Sbuffai. «Tra qualche giorno», le dissi. «Ma saranno le ultime», continuai. «La prossima me troverà tutte le informazioni sul dottor Lafitte».
Mi ero infatti incisa nome e indirizzo del chirurgo belga sull’avambraccio sinistro.
«E credi di risvegliarti in un universo dove Lafitte è vivo?» domandò ancora mia madre. «Non hai ancora capito che non sei tu a decidere?»
Ne avevo abbastanza. Se la mia quotidianità interdimensionale era frustrante, lo era ancora di più chi continuava a ricordarmela in maniera disarmante.
Ero stufa di mia madre. Ero stufa dei suoi silenzi, delle sue omissioni, di quell’atteggiamento del cazzo da maestrina. Al suo posto mi sarei sentita in colpa per avermi messa al mondo, o almeno per non avermi preparata ad affrontare al meglio l’esistenza del cazzo che ero costretta a vivere.
«Facciamo che io e te non ci conosciamo», affermai con rabbia, ma convinta. «Non mi sei mai d’aiuto. E affetto ne percepisco poco. Addio mamma!»
«È tuo nonno!» mi disse all’improvviso.

Le dimensioni contano – Parte 32

«Tutto bene?» mi chiese la mia compagna di cella, una pachidermica cinquantenne con inquietanti avambracci da muratore e raccapriccianti tatuaggi da rapper bianco. Appeso alle pareti un poster di Sarcina il cantante de Le vibrazioni, che credo fosse parte della condanna. Dovevo aver litigato recentemente: ero dolorante alla schiena e tastandomi le labbra mi accorsi di essere nuovamente senza denti. Parlare fu terribile. Senza gli incisivi, fischiavo quando pronunciavo certe lettere.
«Cosa succede?» chiese ancora l’elefantessa tatuata.
Scossi il capo. «Ho avuto un incubo», le mentii.
Perché diavolo mi trovavo dietro le sbarre? Ipotizzai per l’omicidio del mio patrigno,  ma non potevo essere più lontana dalla verità. Il mio patrigno era vivo e vegeto e si prendeva cura del mio fratellastro. Io invece scontavo l’ergastolo per l’omicidio di mia madre.
«Devono avermi incastrato», affermai con un tono alla Charles Bronson sdentata.

Quando nel pomeriggio ottenni da mio avvocato una copia del fascicolo del mio processo, mi ritrovai al cospetto di prove schiaccianti. Avevo ucciso davvero mia madre, ed ero anche reo-confessa. Quattro anni prima avevo accompagnato mia madre a far compere. Durante il tragitto di ritorno avevo finto un malore, costringendo mia madre ad accostare in una piazzola. A quel punto l’avevo convinta a seguirmi sul ciglio di uno strapiombo, per poi spingerla sotto. Era lo stesso punto in cui in altri universi accadeva l’incidente in moto del mio patrigno.
«Porca puttana assassina», sussurrai osservando le foto del cadavere di mia madre.
Avrei voluto piangere, ma la mia fica pulsava come il cruscotto di una Fiat Panda poco prima della fusione della guarnizione della testata: ero eccitata dall’idea del matricidio. Lo trovai inquietante.
Proseguii con la lettura e scoprii che, secondo la psichiatra e lo psicologo incaricati dal tribunale, avrei voluto punire mia madre per non esserci stata quando ero stata stuprata da un aggressore ignoto. «Aggressore ignoto?» lessi ad alta voce.
«Leggi a voce bassa, puttanella», mi ammonì il pachiderma tatuato.
«Scusa, grassona», affermai involontariamente.
«Grassona a chi, puttanella?»
La mia compagnetta di cella si mostrò piuttosto contrariata dal mio linguaggio. E il suo essere contrariata si palesò non appena saltò giù dalla branda e mi afferrò per il collo, sollevandomi da terra. «Vieni da meeeee», cantava sarcastica, «abbracciami e fammi sentire cheeeeee…»
Mi sentivo soffocare. Provai a resistere, colpendo con un calcio la pancia lardosa della cicciona tatuata, ma senza successo. La mia compagna di cella infatti mi scagliò sul letto e mi salì sopra, poggiandomi un ginocchio sullo stomaco e premendo con forza. Quindi si voltò sedendosi sul mio viso. Un liquido caldo, viscido e appiccicoso mi colpì sul sopracciglio sinistro e mi si spalmò sullo zigomo, centrando infine la bocca. Quella stronza cicciona mi aveva cagato sul viso. «Non permetterti più, troia ammazza-madri», aggiunse prima di darmi la “buonanotte” con un pugno sul volto, che mi fece perdere i sensi.
Mi risvegliai in infermeria, con un braccio ingessato. Ero dolorante, attonita, un poco come quando si resta con la testa sotto il sole, all’ora di pranzo, magari all’equatore, senza cappellino e senza capelli, per una cinquantina di minuti. Ero più stordita di un’Antonella Elia cresciuta da una Laura Freddi lobotomizzata.
«Quella stronzona grassa mi ha fatto perdere i sensi», affermai mentre l’infermiera mi ficcava un ago nel braccio sinistro.
Ma non ero in infermeria per l’aggressione. Alla mia sinistra, disteso su una barella e coperto da un lenzuolo rosso insanguinato, giaceva il corpo esanime della mia compagna di cella. L’avevo uccisa io? Come ci ero riuscita? E con cosa? Ma soprattutto, perché non me lo ricordavo?!
Il dramma era che non mi sentivo in colpa né per la cicciona, né per mia madre.
«Come ho ucciso quell’ammasso di grasso?» chiesi all’infermiera.
Mi fissò con biasimo. «Mi dai i brividi», disse.
Quindi mi fece una seconda iniezione di non so cosa e mi addormentai. Al risveglio ero nuovamente fuori dalla cuspide. Ero sola, in una stanza matrimoniale in cui non c’erano segni di eventuali mariti o scopamici. Di fianco al letto vidi un comodino, sopra il quale un Nokia 3310 in carica. Lo presi e tra gli sms c’era la buonanotte di mia madre. Sorrisi, era viva.
Poi piansi. Piansi per aver ucciso la compagna di cella. Piansi per aver ucciso mia madre. Piansi per aver ucciso più volte il mio patrigno. Piansi per la nonna, che mi mancava. Piansi per l’aborto. Piansi per lo stupro. Piansi per Sonia e Carolina, ma anche tutte quelle persone a cui mi ero affezionata ma che improvvisamene erano scomparse. Ma soprattutto piansi per aver perso mio marito, che mi mancava da morire. Piangevo perché mi ero rotta di vivere quell’esistenza.
«Mamma?» le chiesi quando mi rispose al telefono.
«Che c’è?»
«Le ovaie: se me le faccio levare, finiscono i viaggi interdimensionali, no?!»
Silenzio.