L’altra bionda succhiava meglio. (Finale)

Train set and match spied under the blind
Shiny and contoured the railway winds
And I’ve heard the sound from my cousin’s bed
The hiss of the train at the railway head
Always the summers are slipping away

Porcupine Tree – Trains

 

 

«Uno per Roma».
«Andata e ritorno?» mi chiedi con gentilezza.
«È indifferente».

Sei una bella ragazza, hai un bel corpo, hai un bel viso e, dal mio punto di vista, dal mio sessista punto di vista, con questo corpo non dovresti lavorare in tabaccheria. O forse sì, forse oltre che sessista sono anche presuntuoso, forse ho la presunzione che al prossimo non piaccia il proprio lavoro solo perché a me non piace il mio.

Così mi trovo seduto nella sala aspetto, ad osservare te, te, te e anche te. Osservo tutte voi, mie care belle figliole, osservo tutte quelle con cui passerei volentieri la notte, ma da cui fuggirei poi al risveglio. Sono cambiato nel tempo, sono diventato tipo da caffè, croissant e La Repubblica. Sono tra quelli che dal giornalaio ci vanno soprattutto per farsi la passeggiata, uno dei troppi che “tanto il 90% delle notizie le leggo da internet”. Le edicole non sono più il paradiso delle riviste erotiche, non scorgi più certi cazzoni o tettone invitanti esposti di fianco ai vari surrogati de La Settimana Enigmistica. Le edicole non sono nemmeno più il covo dell’informazione, ed è sbagliato, è sbagliato perché leggiamo meno e molto peggio. Il gossip tira più dell’approfondimento, sappiamo tutto della vita sessuale di Belen, ma non sappiamo quasi nulla di quanto avviene a Taiwan, Taipei o in posti generalmente costretti al trafiletto giornalistico. Lo so, sono discorsi da anziano catarroso e pessimista, ma ecco, prima o poi bisogna cominciare ad invecchiare, no?

«Dove va?» chiedi accomodandoti nel sedile di fronte al mio.
«Roma», ti sorrido gentilmente «tu?»
«Germania».
«La Germania è a Nord», ti faccio notare «questo treno invece va verso Sud».
«Non ci vado da sola in Germania».

E così esci dalla mia vita prima ancora di entrarci, facendomi notare che in Germania non andrai sola. Tu hai voglia di chiacchierare con me, ne hai voglia più per desiderio di compagnia che per eccitazione. Per me è il rovescio, è più desiderio di eccitazione che voglia di compagnia. C’era un fumetto che mi piaceva parecchio, era un fumetto a carattere pornografico, un fumetto che mostrava una scena in treno tra sconosciuti. C’era una lei che indossava delle scarpe con il tacco, scarpe da cui liberava il piede destro, per poi poggiarlo sul pacco di lui. È un’immagine che ho sempre trovato eccitante, un’immagine che, di fatto, mi accompagna in ogni singolo viaggio in treno che affronto.

«Perché va a Roma?»
«Lavoro» rispondo, ma rispondo con una bugia.
Non vado a Roma per lavoro, ci vado per tornare nel luogo in cui io e la bionda toscana ci siamo incontrati. Era una tabaccheria, la sua tabaccheria, quella in cui vendeva i gratta e vinci mentre canticchiava “Male di Miele”. Avevo acquistato qualcosa, forse delle sigarette o forse un biglietto dell’autobus, o forse entrambi o nessuno dei due.

«Come ti chiami?» le chiesi quando mi diede il resto.
«Fa davvero la differenza sapere come mi chiamo?»

E così tu, ennesima ragazza bionda con cui condivido la tratta fino a Roma, passi dallo status di possibile partner papabile per un 69 furente, a quello di logorroica compagnia che parla di una marea di argomenti di cui mi importa meno di un cazzo.
Anche la bionda toscana, che poi era umbra ma vive al nord eccetera eccetera, affrontava un sacco di argomenti che non mi interessavo. Ma la lasciavo parlare, e non perché fossi paziente, ma perché mi piaceva il suono della sua voce, anche se pronunciava parole di cui non mi importava nulla. È un poco come una brutta canzone suonata da una buona chitarra, non puoi non ammettere che abbia un bel sound. Ascoltavo poco quindi, la sentivo ma non l’ascoltavo e forse per questo non ho mai saputo come si chiamasse. Forse per questo lei preferisce spedirmi delle fotografie piuttosto che mandarmi delle lettere, lei, che in questo universo digitalizzato e digitalizzante, stampa ancora le foto su carta e scrive le lettere a penna. In fondo la bionda è una partner che al sesso virtuale preferisce quello reale, una donna che alle descrizioni in chat preferisce il sapore del frenulo sulle labbra, una compagna di letto che non crede a un’erezione finché non ne percepisce la consistenza con mano.

«Domani parto» disse un giorno.
«Dove vai?»
«Non credo sia importante», concluse «mi mancherai».

Non mi disse nemmeno allora come si chiamasse, ma tempo dopo mi contattò su Facebook, per quanto fosse registrata con un nome fittizio, cioè “Caffettiera Bionda”. È stato dai social che ho appreso dove viva, è stato grazie ai social che ho scoperto a luoghi della Toscana è legata e, sempre dai social, ho capito che il mio passaggio nella sua esistenza sia stato importante. No, non ha mai postato nulla di stucchevole riferito a me, nessuna frase triste, nessuna espressione di odio, o quant’altro. Ha solo cominciato a fotografare le caffettiere, ha cominciato a fotografarle per raccontare i suoi viaggi. Quindi, se conosci qualcuna che ha postato foto di caffettiere a Parigi, Amsterdam, Alghero o Roma, quella è lei.

«…così anche lui ha trovato lavoro ad Amburgo e abbiamo deciso di trasferirci». Sorridi. Sorridi dopo aver terminato di raccontarmi la tua vita; sorridi dopo aver ultimato un resoconto che ho finto di ascoltare con attenzione; sorridi perché il mio disinteresse è stato ben celato o forse sorridi perché parlare della tua vita ti mette di buon umore.
«Parlami di te», aggiungi alla fine.
«Ho quarant’anni e faccio un lavoro da ventenne».
«E poi?»
«Conoscevo una ragazza con i capelli viola».
«Era speciale?»
«No», concludo «È stata semplicemente l’ultima non bionda».
«E allora?».
«E allora non vale più la pena parlarne».
Aveva ragione la toscana bionda, aveva ragione quando sosteneva che prima o poi non avrei più parlato della donna dai capelli viola.
«Conoscevo una bionda», riprendo quindi «era umbra, abitava nell’Alessandrino, adorava bere il caffè e ascoltava gli Afterhours. Era uguale a tutte le altre bionde, ma anche assolutamente diversa».

 

Qualche caffettiera prima.

«Domani parto» disse quell’ultima volta.
«Dove vai?»
«Non credo sia importante, mi mancherai».
«Non mi hai mai detto come ti chiami».
«Nemmeno tu hai raccontato tutto di te».
«Conosci il mio nome».
«Vero, ma non è sufficiente per conoscerti. Di te non so nulla, salvo che ti piaccia dipingere, anche se la pittura non è il tuo lavoro. Mostri solo ciò che ti interessa mostrare, come quando affermi che fai un lavoro da ventenne, senza però specificare che lavoro sia».

E così se ne è andata via e mi ha pagato con la medesima moneta.
So dove vive ma non so come ci sia arrivata; so se sta male, ma non so chi o cosa la ferisca;  so che non mi ha dimenticato, ma non mi ha mai spiegato il perché. So che pensa a me, lo so perché me lo ricorda con le foto delle caffettiere, ma non ho mai capito se il suo sia amore, odio, entrambe le cose o nessuna delle due.

L’altra bionda succhiava meglio. (pt. 4)

«Ti piace?»

E` ovvio che mi piaccia, la perversione piace sempre, è la perversione a rendere indimenticabile il sesso, è la perversione a sancire la differenza tra una scopamicizia “tanto per..” e un’appagante serie di scopate. La perversione è una delle forme di fiducia più imponenti che riesco ad immaginare, la perversione è figlia di un mutuo accordo tra partner, un mutuo accordo spontaneo che nasce in uno scambio di sguardi, senza bisogno di liturgie o accordi verbali. Perversione non è sesso anale, perversione è incularsi facendo finta che il sesso anale sia proibito; perversione non è fellatio, footjob o un dildo color porpora; perversione è sfondare una fica con una caffettiera da 1.

«Sei stato bene?»
«Sì».
«Posso accendere la radio?»
«Sì», rispondo gentilmente «ma non quella».

Possiedo tre impianti stereo portatili, di cui due sono combo e il terzo è un assemblato vagamente professionale. Uno dei combo è qui, in camera da letto, e non viene acceso da parecchio tempo, da un pomeriggio autunnale di parecchi autunni fa. Avere quarant’anni significa guadagnare tempo, significa essere tonici e brillanti, ma anche essere saggi e, se si è letto abbastanza, sufficientemente edotti. Avere quarant’anni significa non sentire il peso di un lustro che passa, significa percepire “cinque anni fa” come un lasso di tempo ragionevolmente breve, nonostante non lo sia. Questa radio deve restare come è ora, spenta e silenziosa. Questa radio, l’ultima volta in cui è stata utilizzata, ha suonato Ghost in The Machine dei Police. Questa radio è spenta da un lontano Novembre, da un giorno cupo in cui The Invisible Sun ha fatto da colonna sonora a un’ultima silenziosa sigaretta. Il CD è ancora dentro, un CD non mio, un CD che non essendo mio non mi sento in diritto di ascoltare, un CD di cui tuttavia non possiedo alcuna custodia e che quindi non mi va di rimuovere dal lettore. Quel Ghost In The Machine sta li, da quando la ragazza con i capelli viola lo ha fatto suonare.

«Non credevo ti piacessero i Police», affermi con tenerezza.
«Credevi bene», replico con eccesso di retorica da patetico film noir anni 80 con protagonista Andy Garcia. Ma non sono Andy Garcia, non lo sono perché non ho recitato ne Il Padrino Parte III, perché non ho il fascino da gangster con la faccia d’angelo, perché non sono abbastanza noioso.

«Posso mettere gli Afterhours
«Piuttosto mi lascio inculare da un rude e irrispettoso negrone superdotato in astinenza da un decennio».

La bionda toscana adorava Manuel Agnelli e soci, ma giungemmo al compromesso che io avrei continuato a lubrificarle il buco del culo con la lingua, se e solo se lei mi avesse dispensato da Male di Miele, Non è per sempre e tutte le puttanate successive. Che poi ok, definirle “puttanate” è assolutamente soggettivo, ma ho un’età in cui posso cominciare a vomitare la prima stronzata che mi passa per il cervello, senza dover necessariamente essere politicamente corretto. E poi, fino a prova contraria, per la bionda toscana non è stato complesso scegliere tra le rime di Dentro Marylin o il mio rimming dentro di lei. Presumo che per quanto gli Afterhours siano apprezzati, o apprezzabili, non vengano comunque prima di un devoto lavoretto fatto con la lingua. 

«Li metto uguale», sorridi convinta che forse mi piaceranno, «ti ho succhiato il cazzo due volte, quindi lasciami scegliere la colonna sonora».

Ed eccoci così al compromesso, cioè lo snodo prioritario di qualsiasi relazione, che sia questa erotica e/o emotiva, o che sia semplicemente un rapporto interpersonale lievemente sincero. Il compromesso è quell’accorgimento che alla scuola materna alterna “l’ora d’aria” alle prove di scrittura; il compromesso è quell’accorgimento che ti costringe a star seduto a studiare le tabelline, per poi goderti in santa pace il tiro della tigre di Mark Landers; il compromesso è quell’accorgimento che ti convince a tenere per mano il tuo primo amore, anche se ti imbarazza farlo, in modo che poi lei ti masturbi in un qualche cespuglio non troppo nascosto. Il compromesso è quell’accorgimento che ogni tanto ti fa rinunciare alle altre fiche, in particolare se quella che ti lasciano leccare ti piace parecchio.

«Fai come vuoi».

Ed eccomi quindi a casa mia, nudo, sdraiato prono sul mio letto, ancora sporco di sborra. Sono qui, rilassato, ad ascoltare i tutt’altro che rilassanti Afterhours, mentre osservo la soddisfazione da piccola vittoria dipingersi sul tuo volto. Ma credo sia questa la differenza maggiore tra una partner e un’altra: alla bionda toscana ho concesso tante piccole vittorie, perché quando sorrideva soddisfatta il suo volto diventava ancora più bello. A quelle come te invece, concedo una vittoria come premio di consolazione per il successivo e metaforico ma indiscutibile calcio in culo con cui ti congederò dalla mia esistenza. L’attrazione sessuale è anche una questione di lineamenti, se mentre le sali sul dorso, ficcandole il cazzo tra le labbra, la prima cosa che ti viene in mente è “madonna che bel viso”, allora sei destinato a scoparci assieme molte altre volte. Se penso alla bionda toscana, che poi è umbra e vive nel nord Italia, mi viene in mente quanto mi piacessero i suoi occhi, devoti ed eccitati, mentre con la lingua risaliva dallo scroto fino alla punta dell’asta.

Finale >>

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L’altra bionda succhiava meglio. (pt.3)

«Dipingi?»
«Capita».
«Cosa dipingi?»
«Una caffettiera».
«Wow, che idea “originale”», ironizzi baciandomi una spalla. Viviamo un attimo di tenerezza, attimo di tenerezza che sparisce non appena mi afferri il cazzo con la dritta. Sei arguta, hai capito che mi piaccia, mentre mi masturbi, sentire la spinta del tuo seno sulla schiena. E certo, forse dovrei descriverti in modo più poetico, perché la poesia è arte, perché la pittura è arte. Eppure faccio fatica a definire artistiche le mie opere, forse perché il primo aggettivo che mi viene in mente è ossessive. Non mi sento un artista, mi autodefinisco un ossessivo che dipinge, e credo che chiunque, conoscendomi, la penserebbe alla stessa maniera.

«Dipingi solo caffettiere».

Sì, dipingo solo caffettiere.
Nella mia esistenza ho creato duecentoventisette caffettiere rosse, alcune dipinte su tela, altre stampate su compensato. Ho creato duecentoventisette maledettissime caffettiere scarlatte, duecentoventisette caffettiere rigorosamente simili e contemporaneamente distinte l’una dalle altre.
Dipingere il medesimo soggetto mi aiuta a distinguere, in maniera inequivocabile, l’evoluzione della mia ispirazione nel corso del tempo. Posso usare sempre gli stessi colori o gli stessi pennelli, ma il mio tratto cambia. Il tratto cambia perché dietro ogni singola linea, e dietro ogni singolo passaggio, si cela una vibrazione interiore, una vibrazione interiore che altera i processi neurologici che regolano l’impulso alla pittura.
No, non esiste, non è esistita, né esisterà mai alcuna mostra. Alcuni quadri sono stati incorniciati e appesi nel mio salotto, tutti gli altri sono chiusi in cantina, a tener compagnia a topi, umidità e ormai desuete riviste erotiche. Esistono tanti modi per alimentare la follia, ma io ho scelto quello più affascinante, riverberandolo in un gioco edonista di autocompiacimento. L’ossessione è scegliere di concentrare la follia su un solo soggetto.

«Sei duro».

Sei appagante, mia dolcissima sconosciuta bionda, sei appagante anche se l’altra bionda succhiava meglio. Sei appagante ma non sei la prima ad appagarmi, come non sei la prima che mi vede dipingere, né la prima ad eccitarsi mentre mi osserva dipingere, né la prima a masturbarmi fino a farmi sborrare sulla tela.
Sai, la bionda toscana adorava le mie caffettiere, adorava osservarmi dipingere e, soprattutto, adorava “partecipare”. Una volta insistette che il mio cazzo dovesse essere un pennello, quindi me lo stuzzicò in continuazione purché restasse duro fino alla fine dell’opera. Quella volta la caffettiera venne male, ma io, al contrario, venni alla grande. Capitò che me lo succhiasse mentre dipingevo, così come capitò che mi sfiorasse lo scroto con i piedi, sperando, che interrompessi e mi dedicassi a lei. Infine, non lo scorderò mai, una notte si spogliò e mi chiese di dipingerle la caffettiera sopra la schiena: fu la volta più divertente, anche se ci rimisi una costosa trapunta.

«Sei unica», mento, mento perché sto per sborrare sulla tela, mento perché non sei unica, mento perché non sto pensando a te.

La ragazza toscana aveva uno strano potere su di me.
Quando mi segava o quando mi succhiava, mi faceva stare bene quanto chiunque in precedenza, ma, a differenza di altre volte, pensavo a lei e non ad altre donne. Per questo motivo solo lei mi ha visto dipingere più di un singolo quadro; per questo motivo le sue fotografie sono appese al mio armadio; per questo motivo utilizzo giornalmente la stessa caffettiera con cui le profanai due volte la vagina. No, non c’è più il suo sapore sul filtro in acciaio, ma non mi interessa, mi basta ricordare che sia stato nella sua fessa. Già, lo uso giornalmente per farmi un caffè, un delizioso e ossessivo caffè.

«Perché una caffettiera?» mi chiedi mentre ti ripulisci le dita con una salvietta umida e non le labbra.
«Perché apparteneva alla ragazza…» concludo, «perché apparteneva alla ragazza con i capelli viola».

La caffettiera rossa è come il cappello verde, è rimasta qui perché la bionda toscana, che come ho già detto è una bionda umbra che vive da qualche parte nel Nord-Ovest, mi ha invitato a non buttare via nulla che appartenesse alla donna con i capelli viola.
Quando ho conosciuto la bionda toscana, sulle ante del mio armadio non c’era spazio per appenderci le foto, non c’era spazio perché era occupato da un dipinto, un dipinto particolare. Era la mia unica caffettiera nera, l’unica che non dipinsi rossa, per questo la Bionda toscana se la portò via. La bionda toscana è l’unica donna ad essersi presa un mio quadro, anche perché, la vista di quel quadro, mi ricorderebbe quanto fosse perverso il sesso assieme.

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L’altra bionda succhiava meglio. (pt. 2)

Certi istanti della nostra esistenza sono scanditi dal respiro altrui, respiro altrui che ci culla dolcemente, mentre lo percepiamo per contatto diretto, corpo su corpo. Ricordo il corpo a corpo con la ragazza con i capelli viola, tanto fredda anche nel respirare, come chiunque provenisse da Nord. Veniva da uno di quei posti dove nevica di continuo, uno di quei luoghi in cui il sole si assenta solo per un quarto d’ora, da quelle terre in cui il tasso di suicidi è direttamente proporzionale al reddito pro capite. Aveva gli occhi chiari, quasi trasparenti, e aveva la pelle bianca, quasi pallida, come un metaforico latticino ambulante. Conosceva pochissime parole italiane che, tra l’altro, pronunciava malissimo. Sapeva farsi capire, anche perché non avevamo chissà che da raccontarci. Per gran parte del tempo, infatti, avevamo la bocca occupata dai reciproci genitali.
Ok ok, comincio parlando di esistenze scandite dal respiro altrui e poi parlo di sesso fine a se stesso: lo so, è paradossale, ma viviamo in questa maniera credo, viviamo paradossalmente, in costante incoerenza.

«What time is it?»
«It’s time to go», rispondevo.

La relazione con la ragazza con i capelli viola andava avanti così, bastava un “join me” per trovarci e il resto era sufficiente farlo. Conoscevo poco di lei, conoscevo poco nel senso che sapevo a malapena come si chiamasse, e che venisse da un paese scandinavo. Credo non siano i dati anagrafici a identificare una persona, anzi, nulla è tanto distante dal concetto di singolarità quanto una id card. Nessun documento riporta voci come “single da due settimane” oppure “disillusa per via di un tradimento”; nessun documento amministrativo descrive le aspirazioni di un soggetto; nessun documento istituzionalizzato identifica le principali passioni di un individuo.
La ragazza con i capelli viola, per me, non era che un dato anagrafico, un dato anagrafico con cui facevo sesso, una persona con cui l’intimità era solo fisica. Non sapevo se le piacesse la poesia, né se amasse leggere; non conoscevo il nome di una sola delle sue amiche, sempre che ne avesse di amiche.

«Strano».
«Cosa?»
«Non conoscere il nome delle sue amiche».

Sapevo poco anche della toscana bionda. Per circa due mesi non ho saputo nemmeno come si chiamasse, lei mi chiamava “uomo” e io la chiamavo “ehi bionda”. No, non è che fossi lassista o superficiale, è che, la prima volta in cui parlammo, io mi presentai, ma lei mi rispose, con una domanda retorica, se avesse fatto o meno la differenza il sapere come si chiamasse.
Se fossi curioso?
Lo ero, credo fosse naturale esserlo.
Ma era affascinante l’essere parzialmente ignoranti, era davvero affascinante fare sesso, tanto sesso, con una persona di cui non conoscevo il nome.

«Perché il cappello della ragazza con i capelli viola è ancora qui?»

Giusto, il cappello verde della ragazza con i capelli viola. La bionda toscana è arrivata subito dopo, quindi gli oggetti dell’altra erano ancora presenti, compreso il cappello verde. L’ormai celebre berretto era destinato alla pattumiera, assieme a tanti altri “affetti personali” non miei, ma la toscana mi chiese di non buttarlo. A lei il cappello verde non dispiace, e non come copricapo, tutt’altro, ma come soprammobile, le piaceva vederlo mentre fottevamo.

«Lo guardavo la prima volta che mi hai leccato la fica», mi disse un giorno «vederlo mi eccita, mi ricorda la tua lingua».

Per questo il cappello verde resta li, perché spero di poter affondare nuovamente la mia bocca tra le gambe della bionda.
Lo so, parlo tanto di lei, ma la vita è strana, certi istanti sono scanditi dal respiro altrui, in particolare quegli istanti in cui il respiro altrui manca o quegli istanti in cui il respiro altrui appartiene all’altrui sbagliato.
È un poco come un “vaffanculo”, dipende sempre da chi lo pronuncia e da come lo pronuncia. Ma il suo respiro non lo dimenticherò mai, il modo che aveva di ansimare o di pronunciare ansimante «inculami», in una maniera tanto barbara quanto assolutamente conturbante.
E credo che sì, che la vita sia scandita dal respiro altrui, soprattutto quando il respiro altrui è concitato perché ci stiamo facendo sesso.

Terza Parte >>

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L’altra bionda succhiava meglio.

«Parlami di te».
«Ho quarant’anni e faccio un lavoro da ventenne».
«E poi?»
«Non c’è altro».
«Allora parlami di me».

Parlarti di te? Sarebbe complicato parlare di te. È complicato descrivere qualcuno che non conosciamo, è complicato soprattutto se lo abbiamo sempre trattato con superficialità e indifferenza. Non ricordo da quanto ti conosco e, ancora peggio, non ricordo il come ci siamo incontrati. La differenza spesso la fanno i dettagli e, in questo caso, i tuoi dettagli non hanno fatto la differenza. Ma esiste un Dio per quelli come noi, un Dio che ci osserva e protegge, il Dio Delle Scopamicizie. Il Dio delle Scopamicizie è un’entità ineffabile e onnisciente che ci metta in bocca le parole giuste per permetterci, in futuro, di mettere in bocca qualcos’altro.

«Sei una persona profonda», proferisco dunque, mostrando un sorriso artefatto ma evidentemente credibile «sei una persona profonda e sensibile».

E a volte è sufficiente. È sufficiente il binomio “profondo” e “sensibile” per ritrovarsi il cazzo inzuppato di saliva o un capezzolo in bocca; è sufficiente rispondere in modo semplice e nemmeno particolarmente impegnativo per continuare a sfondare sfinteri promiscui. In fondo si rimorchia maggiormente con i “mi piace il tuo seno” piuttosto che con i “mi innamorerei di te”. E infatti taci, sei felice, il tuo capo si poggia sul mio sterno, le tue labbra baciano dolcemente l’incavo tra costole e ombelico, le tue mani accarezzano l’interno della mia coscia. Le mie invece di mani sono tra i tuoi capelli, i tuoi capelli morbidi e lisci, i tuoi capelli biondi. Il biondo surrogato.

«Mi piace qui», sussurri dolcemente «c’è tanta pace a casa tua».

Ma quella a casa mia non è pace, è silenzio, un freddo e inquietante silenzio. A casa mia vige il silenzio, un silenzio che ogni tanto metto a tacere o con un disco dei PanterA, o con una bionda che mugola, oppure con entrambe le cose. Abbiamo cominciato a baciarci sulle prime note di Vulgar Display of Power; ti ho leccato la fica tra il bridge di Mouth For War e il secondo ritornello di This Love; me lo hai succhiato fino al solo di Rise; infine ti ho penetrata e ora ci stiamo coccolando con Hollow in sottofondo. Sono strane le coccole da sesso occasionale, sono prive di qualsiasi forma di affetto e, contemporaneamente, così spaventosamente appaganti, è una sorta di reciproco esplorarsi, stuzzicarsi, ma senza tutte quelle menate del cuore che batte e via discorrendo. È il corrispondente erotico del godersi il sapore di un frutto mentre lo si mangia.

«Quando sei stato in Toscana?»

Non sono mai stato in Toscana; non sono mai stato a Santa Maria Novella, né al Fosso Reale, né al Palazzo Pfanner, né a Capoliveri. Quelle appesa all’armadio, sono foto scattate da un’altra persona, foto che ho ricevuto per posta e a cui ha dato un significato molto più intenso della semplice constatazione di scienza.
La mia mano finisce sulla tua nuca bionda, non credo sia complesso capire le mie intenzioni, sicuramente non lo è per te, ma un conto sono le intenzioni e un conto è il risultato finale. C’era una bionda a cui non dispiaceva che la mia mano sulla nuca le indicasse la via; anzi, le piaceva assecondarmi, scendendo lentamente, lasciando piccoli baci durante il percorso, creando un sentiero di saliva tracciato dalla punta della lingua.

«Non mi va», proferisci in modo inequivocabile, «l’ho fatto prima, e non è piacevole».

Punti di vista.
A me non dispiace restare mezz’ora con la fica tra le labbra, non mi dispiace che sia la partner a scegliere se e quando sia sufficiente, non mi dispiace impegnarmi talmente tanto da guadagnarmi un “la lecchi davvero bene” che accresca la mia autostima e le possibilità di leccarla ancora in futuro. Ma per te no, è sufficiente un bocchino, uno solo, un bocchino che sia finito prima che Dimebag dia nuovamente occasione a Phil Anselmo di ripeterci retoricamente cosa ci sia di sbagliato nella nostra mente.
La ragazza delle foto, quella che mi ha mandato le istantanee della toscana, non aveva mai fretta, anzi, i suoi pompini duravano da Cemetery Gates a The Art Of Shredding. Comunque non era solo la quantità a fare la differenza, ma la qualità. La bionda toscana aveva una maniera tutta particolare di farmi star bene, la sua lingua restava interi secondi sul frenulo, a stuzzicarlo, eccitarlo, in un appagante gioco in cui mi negava il calore della sua bocca avvolta attorno alla cappella concedendomi tuttavia il lusso dell’eccitazione.

«Di chi è quel basco?» chiedi non appena osservi il copricapo verde poggiato all’appendiabiti.
«Appartiene alla ragazza coi capelli viola».
«Me ne parli?»
«Te ne parlo la volta prossima».

Ma non esiste una volta prossima, non esiste una volta prossima per chi non lo prende in bocca più di una volta, non esiste perché non ospito nessuno nel mio letto che definisca non piacevoli certi accorgimenti passionali. Come dicono i metallica Sad But True. Per questo alla bionda toscana concessi tante volte prossime, per questo alla bionda toscana parlai della donna dai capelli viola e relativo cappello verde, la donna che veniva da…
Ah giusto, dimenticavo un dettaglio: la ragazza toscana non era toscana. Era nata in Umbria, mi pare, e abitava in Liguria o nell’alessandrino, non ricordo con certezza. Comunque non in Toscana.

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