La vastità del prato che me ne frega.

Il giorno scopre la notte solo perché glielo raccontiamo con le nostre fotografie. Diamo dei nomi al nostro stupore, come “tramonto”, “alba”, “panorama”, anche se in verità viviamo tutto ciò senza proferir verbo, a bocca spalancata.
Ed è questo il bello.
Al nostro risveglio, i nostri occhi ignoranti si fidano della superstizione dei colori, e vediamo arancio ciò che magari è rosso, un poco per questioni ottiche e irradianti, e un po’ perché sbagliare ci fa ancora sentire ingenui. Per questo ci avviciniamo alla grande distese di fiori, sia quelle profumate, sia quelle che puzzano di stagno, per ricordarci di quanto era bello, da bambini, immergerci là dentro, quando chiamava “felicità” e “libertà” il semplice sgranchirci le gambe in mezzo alle margherite. Certo, forse era meglio da grandi, da adolescenti, quando i fiori abbiamo iniziato a fumarceli. Ma possiamo anche fare le due cose assieme, cioè cercarci un bel prato e drogarci serenamente.
Ma sì, buona domenica e porco dio!

Alcolismo serale – 2

Le persone non si spaventano facilmente. Non quelle che conosco io almeno. C’è una guerra là fuori. La stanno perdendo tutti, ma combattono ugualmente. Per questo è stupido trascorrere il tempo che ci resta tra un bombardamento e l’altro a lamentarci dei bombardamenti. Ci bombarderanno comunque. Non conviene allora leggere? Qualcosa di Hemingway magari, tipo Il vecchio e il mare.

Immagino di morire a quel modo. Stai leggendo un libro e tra pagina 37 e 38 ti spegni. Accade senza soffrire. Ti addormenti, nulla di più. Credo sia il modo più onesto di andarsene. Una sorta di decapitazione del cordoglio. Invece è sempre tragico. Va come non dovrebbe. Guarisci dal cancro, ma qualcuno ti punta la pistola alla testa e preme il grilletto. Bang Bang!

Così tu arrivi chissà dove, e incontri chissà chi. Magari viene messa in discussione la tua condotta terrena, magari no. Magari ricevi addirittura delle scuse, tipo “sai, non avresti dovuto nascere in Medio Oriente”, o semplicemente “mi dispiace di averti fatto crescere vicino a una stronza che si sveglia e ascolta gli 883”. Lo so, lo so, ho un’idea di pietà divina molto differente da quella cattolica.

Secondo me il vostro dio si incazza quando vi sente aprire bocca e sparare certe cazzate, tipo quella che l’aborto è un femminicidio.

God Save the Queen

Gli amici? Erano i nostri accordi. C’era sintonia tra noi, e non solo metaforica. Eravamo quelli non abbastanza fichi per stare con gli altri che avevano il motorino; anche perché non avevamo il motorino. Ma avevamo la chitarra, e sapevamo suonare tutta Salvation, dei Rancid. Che nessuno ricorda. Ma la ricordiamo noi, ed è ciò che conta. Gli amici? quelli che condividono un ricordo che nessun altro condividerebbe. Nel nostro caso gli amici erano coraggiosi, oltre che stupidi. Come quando si andava a suonare in luoghi dimenticati da Dio, e il pubblico era composto solo da vecchi. E noi sul palco a suonare punk. 70 enni che ci guardavano come alieni mentre suonavamo God Save The Queen. E i nostri amici là sotto. Non erano mai più di 3-4. Conoscevano le canzoni. E quando stavi al microfono, cercavi i loro occhi. Volevi sincerarti che stessero cantando. Gli amici? quelli che sai che cantano anche quando non li guardi. Poi sono cresciuti. E ora che ti incontrano, con moglie e figlio, la terza o quarta domanda è sempre la stessa: “stai ancora suonando?”. Perché hanno sempre qualcosa da proporti. Una cover band degli skunk anansie, oppure “facciamo Ben Harper”. Sì, troviamo il tempo. Gli amici? Quelli che promettono di trovare il tempo, ma non ci riescono mai. Eppure ci provano, quello sempre.

Risvegli Narcotici – Colpevoli

Non tutti hanno gli stessi tempi. Per circostanze o propensione naturale, ci distinguiamo tra i Turbo e i Diesel. Che poi odio la metafora legata ai motori, perché la usava una mia docente del liceo, la quale mi stava molto sul cazzo; anche il liceo mi stava molto sul cazzo. Ok, trovate qualcosa che non stia sul cazzo a me e verrete premiati.

Comunque abbiamo tempi diversi. Ci sono persone che capiscono subito le regole del gioco e le assecondano. Sono vincitori, anche se è una definizione cruda. Sono quelli che prendono il bottino grande e lo divorano osservando la frustrazione degli avversari. E qui nasce l’equivoco: non tutti sono consapevoli di essere in gara.

Dal mio punto di vista anche i perdenti conoscono le regole del gioco e anche loro le assecondando. Semplicemente lo fanno in modo differente. Stare nel mucchio è facile, perché nessuno si rende conto dei quinti o dei penultimi. Sono lì, che ci provano e non riescono, fine, ma godono del privilegio dell’anonimato. L’ultimo no. Lo vedi, lo indichi, lo irridi.

Eppure è una scelta. L’umiliazione è tale solo se rispetti le regole del sistema, solo se accetti la gara eterna e la competizione sistematica. Non lo è più se decidi che devi fare ciò che ti piace, e che con i tuoi risultati gli altri possano pulirsi il culo. Così la gara diventa carta igienica. E tu puoi defecare sulle ambizioni altrui privandole della giusta gloria. Per anche far sorgere il dubbio al vincitore di aver gareggiato da solo. Oppure puoi smetterla di drogarti alle 7:32 del mattino.

Ma la droga è buona e fa bene.

Risvegli narcotici – Vecchi dentro.

Ho ancora in bocca il sapore del caffè. Ho dei documenti da consegnare entro due settimane; devo fare i biglietti aerei per un appuntamento importante; Venerdì devo occuparmi di questioni legate al fisco; dovrei andare a pagare due bollette. Insomma, ho un botto di cose da fare. Se ne ho voglia? Conoscete qualcuno che ha voglia di svolgere le proprie commissioni? In caso di risposta positiva presentatemelo.

Da quando non ho più i gatti ho cominciato a sviluppare una sorta di allergia al silenzio. Quando hai animali, lo spazio è inevitabilmente occupato. Se non fanno versi, sporcano; se non sporcano, dormono dove non dovrebbero dormire; se non dormono, fanno versi. Diciamo che riempiono le giornate. E alla fine occuparsi di loro ti responsabilizza. Credo sia tipo avere figli, solo che non devi spendere un sacco di soldi in pannolini o dvd dei Teletubbies. Sì, si denota che non sappia davvero un cazzo sui bambini. (ci va il congiuntivo?)

Nelle mie passeggiate mattutine, quelle da vecchio dentro, vedo spesso come si risvegliano le altre famiglie. Raramente provo invidia. Che scopino o inizino la giornata con il telegiornale regionale, non importa, perché anche io potrei farlo. Invidio però quelli che aprono la finestra e fumano. E non perché voglia fumare, ma perché vedo la soddisfazione nei loro occhi quando fanno il primo tiro. Fumare appena svegli, con i polmoni tenuti a bada da uno di sonno, è una gigantesca cazzata! Non è salutare. Eppure è pura soddisfazione, 100 % orgasmica.

Credo sia questo il libero arbitrio, la scelta di farci del male consapevolmente. Dio benedica le droghe e ovviamente anche l’amore; ma soprattutto le droghe.

 

Le dimensioni contano – Parte 51 – Finale

Oggi è il 16 Settembre 1987. In questo momento sono una paziente di sette anni ricoverata al reparto di ortopedia del Policlinico Santissima Annunziata di Sassari. Sono la figlia di Anna, un’affascinante trentenne sposata con un bellissimo infermiere biondo, mio papà, l’uomo più bello del pianeta.
Mamma e papà si amano tanto, anche se a volte litigano. In genere causa della lite è mio nonno, il dottor Lafitte, un medico belga che continua a definire gli infermieri come “dottori mancati”. In realtà mia madre litiga anche con mia nonna, che spesso si dimentica di badare a me quando dovrebbe. Io però voglio bene a tutti, anche se per nessun parente nutro l’affetto che provo per Sonia.
Sonia è una rompiscatole prepotente, saccente, opportunista e talvolta bugiarda. Ma anche io sono una rompiscatole prepotente, saccente, opportunista e talvolta bugiarda. Sonia è la mia migliore amica, ma anche la mia nemesi. Passiamo il tempo a bisticciare, ma siamo inseparabili. Per questo motivo Sonia è l’unica compagna di classe a cui permetto di farmi visita.
«Come stai oggi?» mi chiede sedendosi sul bordo del letto.
Non le rispondo. Purtroppo sono ricoverata in ospedale, perché una settimana fa mi è successa una bruttissima cosa. Ero a Sorso a casa dei nonni, giocavo nell’aia con mia nonna. Quando lei è entrata in casa per rispondere a una telefonata, io mi sono precipitata nel granaio, perché volevo usare la motosega. In passato ho visto tante volte come si avvia quell’affare, ma senza rendermi mai conto che nessuno poggia il piede sulla lama prima di tirare il cordino dell’accensione.
Così il motore della motosega è partito, e la lama ha cominciato a ruotare, maciullandomi una gamba.
Tra una settimana partirò per Londra, dove alcuni super-medici amici di mio nonno si occuperanno di me. Ovviamente qualsiasi operazione e cura a cui verrò sottoposta, compresa la più innovativa e rivoluzionaria, non mi restituirà comunque l’arto. Dunque vivrò il resto della mia vita senza una gamba.
«Quando torni a scuola ci sediamo vicine», afferma ancora Sonia, sperando che le rivolga la parola.
Mi volto e la guardo. Non sorride, anche se si sforza di farlo. «Hai perso un dente!» osservo aspramente, sperando di indispettirla. «Sembri la vecchia di Biancaneve»
«Sì!» conferma lei, per nulla scalfita dal mio tono ostile. «Ma comunque ricresce, e inoltre è anche passata la fatina dei dentini», aggiunge con invidiabile entusiasmo. «Mi ha lasciato dei soldi sotto il cuscino».
Sbuffo. «Esiste anche la fatina delle gambe?»
Sonia non risponde. «Abbiamo un nuovo vicino di casa», racconta invece. «Si chiama Marco e…»
«E chi se ne frega?»
«Era così per dire», sorride comunque. «Ora vado, ho pallamano alle quattro».
«Sì, vattene, e non tornare più».
«Ciao», mi saluta baciandomi la fronte.
Non mi ha mai baciata in passato. Mi ha morso fino a farmi sanguinare, mi ha sputato contro saliva e catarro, ma non mi ha mai dato un bacio.
Forse avrei preferito uno sputo e un morso.
Ma questa è la mia vita, la mia nuova vita. Nel mio futuro non ci saranno partite di pallamano, corse nei prati o semplici calci a una coetanea che mi sta sulle ovaie; né ci saranno fughe nel cuore della notte in adolescenza, quando mia madre mi riterrà ancora troppo piccola per star fuori la sera. Il primo bacio lo darò a qualcuno che non riterrà imbarazzante frequentare una ragazza con un arto artificiale.
Probabilmente ascolterò e sopporterò gente in perfetta salute che mi spiegherà che la disabilità non sia certo un limite per fare ciò che mi rende felice. Certo, ci sarà anche chi mi offrirà un lavoro in nome dell’integrazione e delle pari opportunità. Magari diventerò un’atleta paralimpica o qualcosa di simile. O forse no. Potrei suicidarmi a quindici anni dopo aver scoperto che Marco Masini ha fatto una cover in italiano di Nothing Else Matters.
Però mi piace pensare che esista un universo parallelo in cui qualcuno mi ha tirato via prima di accendere la motosega, un universo in cui ho ancora due gambe e sono sul campo di pallamano a fare a botte con Sonia e le altre mie coetanee, un universo in cui magari Marco Masini è un promettente tennista che in futuro si dispenserà da fare il cantante o scrivere canzoni.
Passa un’ora, che trascorro a guardare passivamente Bim Bum Bam.
«Ti fa male?» mi chiede un bambino grasso che è appena entrato nella mia stanza.
«Che domanda stupida. Come può farmi male qualcosa che non ho più?»
Mi fissa imbarazzato. «A me hanno tolto l’appendice», mi informa con candore, come se fossimo nella stessa barca. «Ma mi fa comunque male e…»
«E chi se ne frega?»
Lo guardo un attimo. Deve essere più grande di me, perché è più alto di almeno venti centimetri. È biondo, ha gli occhi chiari e le labbra carnose. Sembra il figlio di John Candy.
«Io sono Gabriele», dice porgendomi la mano. «Tu come ti chiami?»
«Valeria», sussurro senza dargli la mano. «Ora vattene».
Ma il bambino biondo non ha intenzione di lasciarmi sola. Forse in un altro universo vorrebbe giocare con una bimba che ha entrambe le gambe. Magari in un altro universo la sua appendice non si ulcera. Ma in questo universo sceglie di stare con me.

But I don’t want somebody
Who’s loving everybody
I need a shy guy
He’s the kinda guy who’ll only be mine

Shy Guy – Diane King

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Le dimensioni contano – Parte 50

Luce era intelligente e acuta. Ci vollero dunque pochi minuti per spiegarle che avrebbe trascorso i successivi trent’anni a fare dentro e fuori da un universo all’altro. Non fu semplice per me affrontare quel discorso, perché più parlavo e più mi rendevo conto che mia figlia fosse probabilmente destinata alle stesse sofferenze che avevo patito io. Ma era anche una situazione che non potevo evitare.
«Ma papà?» chiese infine Luce. «Perché qui non viviamo con papà?»
Sorrisi. «Perché non so nemmeno chi sia l’uomo che chiami “papà”».
Mia figlia tacque per alcuni secondi. «Cerchiamolo su Facebook», propose.
Era un’ottima idea. Luce prese il mio Samsung S8 e cercò suo padre sul più celebre tra i social network. Trovò il profilo in pochissimi secondi, ma non fu un bene per lei: Gabriele era felicemente sposato con Sonia e avevano un figlio.
«Come è possibile?» chiese mia figlia, scettica e incredula. «Voi vi amate tanto», rivelò agitata. «E perché papà è così magro e muscoloso? Dovrebbe essere un ciccione burroso, lo è sempre stato, da quando vi conoscete».
Sollevai le spalle, non sapevo come risponderle. Poi mi resi conto di un fatto che avevo ignorato per anni. La prima volta che mi ero svegliata nella cuspide, più di vent’anni prima, ero fresca di rottura di fidanzamento da un mio coetaneo sovrappeso. [qui il capitolo dove Gabriele è grasso] «Era sempre lui», sussurrai dunque sottovoce. «Ci sono i nonni nella dimensione da cui vieni tu?» chiesi quindi a mia figlia.
«Tutti, tranne nonna Anna».
«Chi è tuo nonno materno?»
Luce mi fissò perplessa. «È nonno Marco», affermò sorpresa. «Qui chi è?»
Avrei dovuto rivelarle che in realtà Marco non era suo nonno, ma semplicemente il compagno di sua nonna, cioè mia madre. Avrei dovuto raccontarle dell’infermiere biondo, l’uomo che si era rifiutato di far parte della nostra vita. Ma a che pro? Tanto mia figlia lo avrebbe comunque scoperto da sola prima o poi, e amaramente. Volevo lasciarle un briciolo di serenità, anche se sapevo non sarebbe durata a lungo. E non mi interessava se, per via delle mie bugie e omissioni, in futuro non si sarebbe più fidata di me, perché avrei comunque anche tragicamente scoperto di non potersi fidare di sé stessa. Luce era destinata a galleggiare nella stessa identica e putrida merda interdimensionale in cui ero stata immersa io alla sua età.
«Anche qui tuo nonno è Marco, mio padre», le mentii infine. «Volevo solo verificare che non mi stessi imbrogliando».
«E perché mai dovrei imbrogliarti?»
Cambiai argomento. «Preparati. Andiamo a farci una scampagnata».
Sorrise. «Nell’altro universo odi le scampagnate. Detesti stare all’aperto in generale, perché le persone prima o poi si accorgono che hai una protesi sotto il ginocchio destro».
«In questo universo non ho acceso quella maledetta motosega», le ricordai. «Poter cambiare le cose è uno dei migliori vantaggi della nostra esistenza inter-dimensionale».
«Nell’altro universo ho l’iPhone», osò allora mia figlia.
Risi. «E credi che me la beva?» domandai sarcastica. «Ci hai provato, ragazza».

Pochi giorni dopo mi venne il ciclo. Al risveglio nel nuovo universo Luce era nuovamente scomparsa. Al suo posto c’era Michele, mio figlio dodicenne, ed ero nuovamente sposata con Gianni, aka Mr grandepancia-piccolocazzo. Fu sconvolgente, ma mai quanto leggere il referto della mia ultima visita ginecologica: nonostante i trentasei, ero entrata prematuramente in menopausa. Ciò significava che non ci sarebbero stati altri viaggi inter-dimensionali, e che non avrei mai più visto mia figlia.
«Mi dispiace», disse Marco, il mio ex patrigno, quando lo raggiunsi alla facoltà di Ingegneria di Cagliari, dove insegnava fisica.
«Dispiace anche a me», ammisi. «Ma forse è meglio così. Ho davanti a me tanti anni di normalità», affermai sconsolata.
Mi sorrise. «Credo dipenda dalla compensazione», ipotizzò. «Le tue ovaie sono state sottoposte a…»
«Taci, Einstein!» lo interruppi. «Se la teoria della compensazione fosse vera, tu saresti morto da tanto. E sicuramente Sonia, Ivan, Carolina e tanti altri non sarebbero ricomparsi l’uno dopo l’altro», gli dissi. «Non c’è nessuna compensazione. È solo caos! Dimentica tutte quelle robe meta-scientifiche sull’effetto farfalla, i paradossi, i paradigmi filosofici, o qualsiasi altra stronzata che gli scienziati si inventano per descrivere le cose non per come sono ma come vorrebbero che fossero. Credimi, è solo un gigantesco minestrone cosmico, nulla di più».
«Bizzarro», commento Marco. «Tua madre mi disse qualcosa di simile, molti anni fa», aggiunse malinconico. «Solo non capisco una cosa. Perché sei venuta da me se hai queste convinzioni?»
La risposta era semplice: volevo ficcargli il bisturi nello scroto. Non avendo più il ciclo sapevo che il mio gesto sarebbe quasi certamente stato definitivo, e finalmente potevo trovare conforto per essere stata stuprata. Non mi interessava se Marco in quella dimensione era adorabile e se mai e poi mai mi avrebbe messo le mani addosso. Mi sentivo comunque in diritto di vendicarmi di ciò che avevo subito. E non era certo colpa mia se le circostanze punivano il Marco sbagliato, perché il vero colpevole era il caos.

Lunedì il finale.

Le dimensioni contano – Parte 48

«Ciao!» salutai sorridente, dopo essermi voltata.
Gabriele era sempre Gabriele. Era perfetto in completo azzurro e camicia nera. Biondo, alto, in forma, portamento elegante e sguardo carismatico. A trent’anni era al top del proprio fascino. Tra le altre cose aveva anche un buon profumo, nonostante fosse sudato per via del lavoro.
Eppure c’era una nota stonata in quella sinfonia di muscoli e avvenenza: la fede al dito. Gabriele era sposato, ciò mi ferì. Non avevo alcun diritto da reclamare, dunque la mia fu una reazione irrazionale. Però lo amavo, ne ero certa, dunque restai spiazzata alla vista dell’anello. Avrei voluto dire un sacco di cose, ma non mi venne alcuna parola.
Parlò lui invece. Tra noi c’era una faccenda in sospeso, anche se ne ero all’oscuro: «se volevi sparire, perché tutta la messinscena di chiedermi il numero?» chiese bruscamente. «E perché a quella maniera?»
Non avevo assolutamente idea né della messinscena, né tanto meno della “maniera” a cui faceva riferimento lui. Conoscendomi, potevo solo ipotizzare che non avesse torto. In fondo sarebbe stato sufficiente prendere ad esempio un solo episodio della mia esistenza, anche non di stampo affettivo, per constatare la mia assoluta capacità di incasinare le faccende o di comportarmi in maniera subdola e irritante.
«Mi dispiace tanto!» dissi allora.
Gabriele scosse il capo. «Tu mi piacevi davvero», ammise. «Sei una bella donna, sei divertente e sei…»
«…una gran porca a letto?» provai ad aiutarlo.
Rise. «No!» affermò poi. «Cioè sì, sei anche una gran zozza», si corresse leggermente imbarazzato, «ma sei soprattutto una delle persone più cristalline che conosco», continuò con tono sommesso. «Hai mille difetti, ma non sei una che finge: quando sembri incazzata, sei incazzata; quando sembri felice, sei felice; quando sembri eccitata, sei bagnata come il Tikitaka», concluse.
Sollevai le spalle. «Si chiama Titicaca comunque», lo corressi. Poi sorrisi, e mi ricordai del mese trascorso da sposati, anche se era passato un decennio. E alla fine ciò gli che dissi venne fuori spontaneo: «per me sei importante in tutti gli universi!» rivelai.
«Cosa significa?»
Significava che in quell’universo non conosceva il mio segreto, e che dunque era il caso di andarmene via. Mi avvicinai e lo baciai su una guancia. «Abbi cura di te!» dissi delusa. Quindi mi voltai e feci per allontanarmi.
«Aspetta», mi pregò lui, afferrandomi per il polso della dritta. «Sono sette anni che ti cerco, Cristo santo. Sei sparita nel nulla…» continuò con tono meno ostile. «Dimmi almeno perché non mi hai contattato».
Mi girai nuovamente verso di lui.
Avevo gli occhi rossi e gonfi, forse lucidi, ma non piangevo. Volevo dirglielo, in fin dei conti non avevo nulla da perdere. «Perché io viaggio tra gli universi. Quando ho le mestruazioni salto in una dimensione diversa da quella in cui sono stata nel mese precedente. Quindi la donna che non ti ha contattato negli anni non sono io. Né sono quella che hai incontrato sette anni fa. E sappi che se io e te ci frequentassimo, tra venti o venticinque giorni avresti a che fare con una che non sono più io», rivelai in modo concitato e confuso. «Ho una figlia che potrebbe essere tua, ma non lo so», aggiunsi. «Quindi non farmi domande complicate, perché non so più un cazzo della mia vita, ok?»
Silenzio.
Non so cosa mi aspettassi. Forse una scena tipo film con Meg Ryan, dove il bello di turno abbraccia la protagonista e le dice qualche vaccata melensa. Ma non accadde. Gabriele fece due passi indietro, letteralmente. Poi mi guardò in un modo che non dimenticherò mai. I suoi occhi chiari, che constatai assolutamente identici a quelli di Luce, trasudavano soprattutto pietà, come se avesse a che fare con una pazza, con una schizofrenica.
«Hai bisogno di aiuto», disse infatti.
«Assolutamente», conclusi sibillina. «Ti amo», sussurrai senza ottenere risposta, prima di congedarmi.
Non ricordavo di aver mai pronunciato un “ti amo” in tutta la mia vita. Magari era successo, ma era stato importante o sincero, dunque non lo ricordavo. In trent’anni avevo provato la cocaina, la promiscuità, l’omosessualità, l’omicidio, la disabilità, la maternità, l’essere stuprata; ricordavo anche di aver amato, ma mai di averlo affermato esplicitamente. C’è sempre una prima volta, anche se accade a trent’anni.

Alcuni giorni dopo accompagnai mia figlia in palestra. L’avevo iscritta al minivolley, sperando che si limitasse a schiaffeggiare solo la palla e non le coetanee. Uno degli istruttori era Max, con cui ero stata fidanzata a lungo molti universi prima. Fu molto appagante incontrarlo, se con “incontrarlo” si intende “dargli il numero di telefono e il mattino dopo prendere mezza giornata di permesso dall’ufficio per un bocca-fica-culo in un B&B poco fuori città”.
«Quando ci rivediamo?» mi chiese infatti quel giorno, affiancandomi dopo aver ordinato alle bambine venti giri di campo che, conoscendole, non avrebbero mai completato.
«È un “l’altra volta mi sono divertito parecchio”?» stuzzicai.
Rise. «Qualcosa di simile», replicò, prima di dover mettere in bocca il fischietto.
Due bambine avevano cominciato ad azzuffarsi, e si rotolavano sul parquet tirandosi reciprocamente i capelli. Urlavano come se fossero possedute. Una delle due era Luce; l’altra si chiamava Jessica e aveva una faccia che mi sembrava piuttosto familiare.
«Mi ha chiamato “bastarda”», protestò mia figlia quando le separammo.
«Ti sarai sbagliata, tesoro», disse la madre di Jessica, una cicciona cotonata che mi ricordava qualcuno.
«Carolina!!» affermai infine. «Sei viva?»

I capitoli con Max qui e qui.

Le dimensioni contano – Parte 46

Quel bang; quello sparo secco che profumava di polvere bruciata e metallo; quel colpo di pistola che fischiava nelle mie orecchie per pochi frame esistenziali; quella pallottola in acciaio sfumato rossastro che si avviluppava attorno al proprio asse; quel proiettile che si muoveva quasi al rallentatore in direzione del mio viso; insomma, quel bang fu l’ultima percezione, l’ultimo sentimento e l’ultimo istante che trascorsi nella cuspide. Non ci entrai mai più.
«Cazzo!» berciai di soprassalto quando mi risvegliai.
«Mamma», rispose un’assonnata giovane voce femminile.
Nel letto di fianco al mio individuai Luce, mia figlia. Era tornata; o meglio, ero io a essere tornata in un universo dove c’era lei. Sorrisi e mi commossi. Avrei voluto abbracciare la bambina e riempirla di baci. Ma la osservai chiudere gli occhi e riaddormentarsi: non mi andava di disturbarla. Tempo minuti e anche io ripresi sonno.

Al risveglio feci il punto della situazione. Diedi però prima fuoco al famigerato quaderno con Snoopy in copertina, senza nemmeno leggere cosa ci fosse scritto all’interno. Volevo scoprire le cose man mano che accadevano, perché sapevo che le altre me potevano mentire oppure omettere. Restando in argomento “bugie”, mia madre era teoricamente ancora viva. La cuspide mi aveva infatti rispedita indietro nel tempo di cinque giorni.
«Mi prude il culo!» osservò elegantemente quella principessina di mia figlia, un’oretta più tardi, mentre le abbottonavo il grembiule azzurro.
«Non si dice, tesoro», la ammonii dolcemente.
«Lo dici di continuo», osservò lei, pedante e irritante. Era tutta sua madre.
Le diedi un bacio sulla fronte. «Non fare come me!» suggerii con fermezza.
Accompagnando Luce a scuola feci alcune considerazioni: uno, dovevo comprare un New Beetle, perché il Mini aveva una frizione troppo pesante; due, ero credente, perché in caso contrario non potevo giustificare il rosario impiccato al supporto dello specchietto retrovisore; tre, mia figlia adorava i Modà e Caparezza, che personalmente consideravo come il mio atroce anticipo di pena infernale. Ma se la frizione del Mini mi stava affaticando i polpacci, la famigerata Vengo dalla Luna mi stava frantumando le ovaie, e Luce che ci cantava sopra non mi era d’aiuto.
«Perché non cambiamo stazione?» proposi.
«Perché non stanziamo cambione?» replicò la bambina in modo irridente, prima di sollevare il volume da 4 a 8.
Mi irritai. Mi chiesi come mai le precedenti me non avessero sentito l’istinto di soffocare Luce nel sonno, trasformandola invece in una scassapalle di fame mondiale. «Piantala», dissi severa. «O ti faccio il culo piatto a suon di calci in culo».
«Hai detto “culo”!» affermò divertita prima di sputarmi una caramella contro la tempia.
«Ora ti ammazzo», minacciai. Tuttavia lasciai stare, anche perché nell’universo in cui mi trovavo l’infanticidio era illegale.
La situazione non migliorò certo quando arrivammo a scuola. Ebbi appena il tempo di ascoltare mia figlia dare della “mongoloide” a una coetanea, tra l’altro dopo averla spinta violentemente contro un parete, che venni convocata dalla maestra.
Ero piuttosto abituala alle stranezze degli universi paralleli. Dunque non mi sorprese trovarmi al cospetto della moglie di Ivan; né mi scandalizzò la foto sulla sua scrivania: Ivan era ancora vivo, e si faceva immortalare seduto in un prato assieme a moglie, cane e due figli vestiti da bambolotti froci.
«Di cosa voleva parlarmi?» chiesi.
«Tua figlia è eccessivamente aggressiva!» affermò preoccupata la moglie di Ivan, anche se guardandomi con una certa dolcezza. «Ed è perfida in maniera irragionevole. Dovresti farla vedere da uno psicologo, perché in caso contrario dovremmo espellerla».
Sollevai le spalle. «Cercherò di essere più severa», promisi.
Mi fissò e scosse il capo, sorridendo in modo materno. Era strano, ma quella donna era stata un pezzo importante del mio passato, sia come moglie del mio amante, sia come amante a sua volta. Eppure in quell’universo non significavo niente per lei: non ero che una delle tante madri con le quali aveva a che fare ogni giorno.
Gli universi mi avevano insegnato che potevo essere speciale oppure insignificante all’interno dell’esistenza della medesima persona. Era sempre e solo una questione di circostanze.
«La bambina sta soffrendo», disse ancora la moglie di Ivan. «Le manca il tuo compagno», rivelò.
Feci un segno di assenso con il capo. «Lo so», mentii, perché non aveva assolutamente idea chi potesse o meno essere stato il mio compagno. Forse non era stata un’ottima idea eliminare il quaderno con Snoopy in copertina senza nemmeno dargli un’occhiata. Ma oramai non potevo più tornare indietro, a meno che non rientrassi nella cuspide. Promisi alla maestra di Luce, aka moglie di Ivan, aka mia ex lesbo-scopamica, che avrei provato ad arginare la prepotenza di mia figlia, quindi mi congedai.
Composi il numero di mia madre, ma non rispose. Riprovai, ma nulla. Mi richiamò dopo due ore. «Sto andando a fare un’immersione», disse la mia vecchia concitata, ma felice. «Dovevi dirmi qualcosa?»
Risposte possibili:
1. un motoscafo sta per macellarti;
2. ho bisogno di te per sapere chi era il mio compagno;
3. volevo solo augurarti una buona giornata. Già che ci siamo, buona immersione.

Le dimensioni contano – Parte 45

«Quelle come noi non figliano dal marito. E c’è sempre un amante di mezzo», spiegò mia madre.
«Sono un’eccezione magari», ipotizzai. «Tu e nonna avete avuto una figlia. Io invece ho avuto un maschio».
La mia vecchia mi fissò perplessa. «Tu dopo aver partorito sei andata a Londra a cercare quel tizio biondo, Gabriele, no?»
Sospirai. «Anche se è inquietante, riesco a far sesso con Gianni», replicai. «E visto che non c’è traccia di Gabriele negli universi dove sono stata negli ultimi anni, trovo molto più probabile che sia Gianni il padre di mio figlio», affermai esasperata. «E comunque se non lo fosse, non mi fregherebbe un cazzo!»
Era vero. Avevo trent’anni ed ero stanca dei colpi di scena. Qualsiasi cosa mi aspettasse, non sarebbe stata meno pesante di ciò che avevo già passato. Soprattutto perché inseguire e cercare le persone lontane, perché provare a mettere il mondo sottosopra per provare a scovare chi, per motivi differenti, non era parte della mia quotidianità? Se Gabriele era padre di mio figlio, significava che in un momento passato tra me e lui c’era stato qualcosa. In tal caso allora, perché non aveva provato a cercarmi?
«Devo andare, stasera vado a pesca e devo preparare l’attrezzatura», disse mia madre, dandomi un bacio sulla fronte. «Poi quando hai tempo vieni a sistemarmi il coso del digitale terrestre, perché sono incapace», osservò infine, prima di allontanarsi. Furono le sue ultime parole.
La mia vecchia morì nel pomeriggio, durante un immersione in mare assieme ad un suo amico. Un motoscafo non vide la boa di segnalazione e li tranciò entrambi, quasi di netto, con l’elica del motore fuoribordo.
Venni avvertita verso le otto di sera, e vi risparmio la mia reazione.
Il mattino successivo venni dimessa e organizzai il funerale. Ero impegnata con il beccamorti quando ricevetti una telefonata: era un notaio. Mia madre aveva fatto testamento, a cui aveva allegato alcune parole per la sottoscritta.

Figlia mia.
Se stai leggendo queste parole, significa che è successo… Sappiamo entrambe che potresti salvarmi, perché è uno dei pochi aspetti positivi della nostra esistenza. Tuttavia ti prego di lasciare le cose come sono. Ho avuto una vita interessante, quindi va bene così. Il notaio conosce i recapiti di tuo padre, che vorrei tu informassi della mia morte.
Un’ultima cortesia: non organizzarmi nessun genere di funerale, sarebbe squallido e inutile, oltre che uno sperpero di denaro. Il mio corpo può essere utile alla ricerca medica, e inoltre non credo che un prete, rabbino o qualsiasi altro stregone abbia competenze sul destino migliori delle nostre.
Abbi cura di te.

Malauguratamente non potevo donare il suo corpo alla ricerca medica, salvo non interessasse un cadavere più macinato della carne per ragù. La feci cremare allora e rispettai il suo desiderio di non avere esequie.
Le ceneri le sparsi qualche giorno ad Alghero, nel Lido di San Giovanni, dove incontrai mio padre per la seconda volta in tutta la mia vita. Era alto, biondo, bello; aveva effettivamente delle belle mani come aveva sempre raccontato mia madre. Indossava una camicia nera e le sue gambe lunghe e strette stavano bene dentro i jeans. Era scalzo e aveva un’aria serena.
Si avvicinò a me e sorrise. «Sei tu che mi hai spedito un’email qualche giorno fa», mi chiese gentilmente.
Annuì.
«Ho un ricordo molto vago di tua madre», ammise imbarazzato. «Effettivamente ricordo di averci fatto sesso una volta, ma non credevo che…»
«…che sarei nata io?» domandai.
Fece un cenno d’assenso con il capo. «Posso offrirti un caffè?»
«No grazie», dissi. «Sarebbe imbarazzante e melenso. Se mia madre avesse voluto che ci frequentassimo, ci avrebbe presentati molto tempo fa».
Nessuna obiezione da parte sua.
Quella sera mi vennero le mestruazioni e il mattino successivo mi risveglia nella cuspide.
Ero di nuovo legata, nuda e con un braccio mozzato. Ma non durò a lungo. La porta si aprì ed entrò un infermiere. Era alto, biondo, belle mani. Sorrise, era mio padre. Sorrisi anche io. Poi mi puntò una pistola alla testa e Bang!