Kill All The White Man – Ep. 10

Il mio nome è James e ho lasciato perdere quasi subito le indagini sul presunto omicidio di Karen, perché alla fine mi sono accorto che a prescindere da chi sia stato, dal perché lo abbia fatto e dal come ci sia riuscito, non riavrò mai quel che ho perso. E non parlatemi di “giustizia”, please, perché per me quella parola è solo un pretesto per i venditori di armi cari a quel frocio ciccione di Bradley e alle avvocatesse che si fanno scopare dagli amici di Yale come Anita MacArthur. Siamo troppo abituati al finale catartico, risolutivo e definitivo dei film hollywoodiani per poterci renderci conto che nella vita reale le parentesi non si chiudono mai. In ciò ammiro i francesi, e l’epilogo dei loro noir sospeso a metà, lasciando allo spettatore più interrogativi che risposte. Ed è quel che mi sento, uno spettatore. Guardo quello che mi succede attorno e lo subisco inerme e passivo, come se il libero arbitrio non mi riguardasse. E non è da me, giovane bianco protestante di origini britanniche, pronipote dei puritani che qui nel New England costituirono una sorta di teocrazia economica, coltivando il paradosso che noi bianchi siamo ricchi per volere di Dio e perciò facciamo il cazzo che ci pare. Ma a me piaceva fare il cazzo che mi pare quando c’era Karen a farmi compagnia. Così mi sento più inutile della discografia dei Nickelback e combatto quotidianamente con un senso di colpa latente per non averle detto di amarla un’ultima volta. Perciò ho ucciso io Karen. Anche se non è vero. Ma è solo così che la sua assenza ha un senso compiuto, perché diventa la mia punizione. // Exit.

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Kill All The White Man – Ep. 09

Il mio nome era Karen Jackson e Anita McArthur non è felice della visita del mio fidanzato James. Non lo è perché lui la sorprende nel Dorchester, all’esterno di un three-decker, il nido d’amore dove si fa riempire come un krapfen dal proprio amante sposato. Anita in genere ha una risposta a ogni domanda, comprese le proprie vedute da conservatrice puritana pro-matrimonio tra froci, per la quale è pronta a dirsi vicina a Mary Chening. E anche se ha la fica ancora grondante dello sperma caldo del proprio amante, e nonostante l’intimità violata, quando James le fa notare che io sono morta non lontana da lì, i suoi occhi vuoti da Ally McBeal incartapecorita non sembrano vacillare. «Karen è morta dopo essere andata via da casa tua. Solo a me non sembra una coincidenza, James?» replica infatti con la prontezza di riflessi da opinionista della Fox a un raduno di progressisti tatuatisi “Yes We Can” persino sul cazzo. James non le risponde, ma è disgustato. E non è il tipo di disgusto che si nutre dopo che qualche idiota ti ha inviato il video di 2 Girl e 1 Cup; né il disgusto che si percepisce durante un buffet al quale possono partecipare quegli obesi che non fanno ginnastica dai tempi dei Bulls di Jordan e che sono costretti a muoversi su scooter elettrici; non è nemmeno il disgusto che si prova osservando dei nani pagati per lasciarsi filmare mentre stuprano una bambola gonfiabile con le sembianze di Biancaneve. Il disgusto che prova James è quello di un uomo che morirebbe domani se fosse sicuro di passare il resto di oggi assieme a me, a farsi rompere i coglioni un’ultima volta, piuttosto che percepire un frustrante vuoto che alla sua età sembra innaturale e privo di qualsiasi logica (continua)
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Kill All The White Man – Ep. 07

Il mio nome era Karen Jackson e ci sono diversi motivi per i quali il mio fidanzato non crede che sia quel boiler succhiacazzi di Bradley il mandante del mio omicidio. In primo luogo perché certa gente ha paura delle violenza, anche se poi difende il secondo emendamento come qualsiasi altro coglione bianco nato in una nazione dove a qualsiasi bifolco con il quoziente intellettivo di un procione lobotomizzato viene offerta l’opportunità di esibire un documento falso e portarsi a casa un fucile d’assalto con il quale sterminare un’intera comunità Amish. Inoltre Bradley non avrebbe mai avuto le palle per ordinare di farmi fuori come un battitore al terzo strike: non è un frocio elegante e potente come Clay Shaw, ma una barzelletta antropomorfa come un Peter Griffin finocchio. E una simile mezza-sega passerebbe tutta la vita a cacarsi sotto temendo di essere scoperto, un poco come un bimbo che ha lasciato le impronte sull’impasto dei muffin materno. Terzo punto, anche se Bradley non è suo padre, cioè un puritano tanto radicale che nell’intimità incula la moglie pur di non offendere il suo dio con l’abominevole e innaturale utilizzo del profilattico, si è probabilmente reso conto che la morte di una ricca figlia bianca da cunnilingus al country club, maine coon in salotto e passeggiata con golden retriever di razza ogni santa mattina, avrebbe sollevato qualche interrogativo, compresa la curiosità di un investigatore desideroso di mettere le mani nei miei hard disk. E a quel punto non ci sarebbe stato importo capace di comprare il silenzio su certe fotografie compromettenti. Perciò no, Bradley avrebbe potuto, ma probabilmente non ha voluto (continua)

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Kill All The White Man – Ep. 06

Il mio nome era Karen Jackson e dalle mie email James ha ristretto a tre la rosa di persone che avrebbero potuto augurarmi un prematuro rigor mortis. Il primo nome è quello di Bradley succhiacazzi Perkins, un frocio sovrappeso che stimola erotismo quanto una scatola di profilattici raffigurante un aborto insanguinato, ma con le medesime aspettative sociali del mai rimpianto Jeffrey Dahmer. Un mio ex scopamico dei tempi di Harvard, il cui hobby occasionale è immortalare con la propria reflex i rampolli bianchi e viziati dei petrolieri repubblicani in atteggiamenti poco appropriati a rampolli bianchi e viziati di petrolieri repubblicani, ha sorpreso il nostro Bradley in compagnia di un escort transessuale sadomaso di origini cubane. Succhiare i piedi a una donna con un cazzo grosso quanto un tubetto di Pringles non è esattamente l’immagine che convince un ricco nazi-papà filo-Trump a far sì che il proprio figlio lardoso possa avere accesso a un fondo fiduciario da centinaia di migliaia di dollari puzzolenti di greggio saudita. Considerato dunque che il mio amico non si è posto troppi problemi a farmi avere quelle immagini, ora secretate con stringa crittografica in uno dei miei hard disk chiusi nel caveau della testata giornalistica per la quale lavoravo, e aggiunto che Bradley Perkins aveva promesso inutilmente fino a sessantamila dollari per comprare il mio silenzio editoriale, si fa piuttosto in fretta a supporre che il ciccione rottinculo abbia avuto quanto meno un orgasmo sfinterico quando ha appreso della mia morte. Eppure non è lui il primissimo a cui James chiederebbe se sia o meno coinvolto nel mio falso incidente. (continua)

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Kill All The White Man – Ep. 05

Il mio nome era Karen Jackson e ora voglio spiegarvi qualcosa della mia città. Un abitante di Boston su cinque è afroamericano. Dei quattro restanti, uno generalmente è un operaio irlandese che adora fare a botte; l’altro è uno sturacessi italiano con un irrisolto complesso edipico nei confronti delle polpette materne; il terzo è un latinamericano che di giorno pulisce le friggitrici in un fast food e che la sera insegna balli caraibici a bianchi sovrappeso e privi di talento; il quarto infine è un piccolo imprenditore asiatico che aveva il massimo dei voti a scuola, ma che alla fine ha aperto una catena di lavanderie a gettoni. Poi ci siamo noi, gli wasp, i bianchi protestanti di origini inglese. Siamo una piccola percentuale, ma a differenza di negri, mangiaspaghetti e tutti gli altri, non siamo venuti in Massachusetts per fare gli operai, i camerieri o vendere droga. Noi siamo venuti a Boston per comandare. Per questa ragione il mio fidanzato James non si è bevuto la storia raccontata dal mio capoufficio, il quale – usando il suo tono da cinquantenne desideroso di compensare le prime defaillances sessuali con una Shelby Cobra da cattivo dei Simpson – racconta che la mattina della mia morte mi avesse spedito a Jamaica Plain per ritirare alcuni biglietti da visita. Io però non ero Hillary Duff, né la mia vita era l’ennesima declinazione cinematografica di Cenerentola in chiave moderna (con annesse le orticanti scene di ballo collettive). Io avrei preferito farmi fare il pap test da un ginecologo con chele al posto delle mani piuttosto che occuparmi di una commissione da fattorino. James lo sa, e per questo ora spulcia una per una le mie email. (continua)

Kill All The White Man – Ep. 04

Il mio nome è Karen Jackson e il mio fidanzato non crede che il mio sia stato un incidente. Del resto Dio non è un avvocato afro-americano tifoso dei Lakers che costringe la figlia di nove anni a leggere il Crogiolo, bensì una meravigliosa entità metafisica che a un certo punto della storia dell’universo ha fatto sì che un uomo si alzasse dal proprio letto del New Jersey e scrivesse Livin’ On a Prayer. E uno spirito capace di concepire i Bon Jovi e gli M&M’s non poteva certo togliere di mezzo in maniera casuale e accidentale una privilegiata con il pedigree da possibile candidata al congresso. Del resto, a differenze dei rapper bianchi, dei fan del soccer e di tutti i chitarristi dei Red Hot Chili Peppers diversi da John Frusciante, la mia esistenza aveva un senso. Quindi James ha iniziato a indagare sul motivo che mi ha portato a Jamaica Plain alle sette e un quarto del mattino. Perché infatti una protestante bianca che abita nella centralissima Beacon Hill e che lavora in un altrettanto centrale grattacielo del distretto finanziario, si spingerebbe a sud del Dorchester, in un quartiere abitato quasi esclusivamente dalla working class meticcia cittadina, per altro a circa un’ora di metropolitana dal cuore pulsante di Boston. Di certo non ero lì per prendere lezioni di yoga, né per farmi fare le unghie o i capelli da una di quelle mangia burritos ispaniche jenniferlopeziane che sono nate e cresciute in Massachusetts e che ciononostante si ostinano a insegnare esclusivamente lo spagnolo a quelle future spogliarelliste delle loro figlie. Perché poi – si chiede ancora James – ero lì con la mia macchina, considerato che ultimamente non andava nemmeno a trovare mia nonna dall’altra parte della strada se fuori casa non trovavo un Uber pronto a darmi un passaggio? (continua)

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Kill All The White Man – Ep. 03

Il mio nome era Karen Jackson e voglio parlarvi di James, il mio fidanzato. Nell’ultimo mese ha attraversato i cinque stadi del lutto: cordoglio, rabbia, negazione, ettolitri di xanax e il video youtube dei 10 momenti più tristi di How I Met Your Mother. È un po’ Ted Mosby al momento, un nerd logorroico allergico ai cani e che può vantarsi di avercelo più grosso di Enrique Iglesias che, dopo avere atteso a lungo l’anima gemella e averlo infilato in qualsiasi fessura bagnata, ha perduto l’amore della sua vita in un attimo più breve della gloria discografica di un vincitore di un talent show. Ed esattamente come avrebbe fatto Ted, non ha cambiato il proprio stato sentimentale su Facebook; mi augura ancora la buonanotte prima di addormentarsi; piange ascoltando i Cranberries mentre pedala per Cambridge. Se vogliamo, è la quintessenza del romanticismo tra fidanzati bianchi dipendenti dal fondo fiduciario e lobotomizzati dallo smartphone. Eppure preferirei essere lì con lui, su quel divano infestato dal mai abbastanza appagato e ansimante fantasma delle nostre scopate, a litigare su quale inutile serie tv guardare su Netflix, piuttosto che godere di questa inutile e patetica tenerezza shakesperiana 2.0. Del resto è solo questione di tempo, poi James installerà Tinder. E dopo qualche meh, incontrerà una ventisettenne fresca di divorzio dal matrimonio frettoloso con il fidanzato del liceo, la quale darà sfoggio di una fellatio degna di un encomio di venti minuti da parte dell’immortale Bill Hicks, prima di fargli scoprire un qualche ristorante per soli bianchi del Back Bay, ad assaggiare la cucina asiatica di uno chef italiano per metà irlandese. E tra un pompino e l’altro, io verrò dimenticata. O forse no? «Non è stato un incidente», sussurra infatti James a mia madre, di fronte alla mia lapide. (continua)

Kill All The White Man – Ep. 02

Il mio nome è Karen Jackson e tutto ora procede al rallentatore, come in uno scontato film per adolescenti canadesi interpretato da uno dei tanti cloni di Rachel McAdams. Il dj efebico alla radio, l’appuntamento per conto del Globe qui a Jamaica Plain, i trenta messaggi vocali della mia migliore amica xanax addicted, tutto investito dall’autobus di trentamila libbre che colpisce la mia Ford C-Max sul fianco sinistro, uccidendomi sul colpo. Lo spettacolo all’interno dell’auto è talmente inquietante che servirebbe l’intervento di Mister Wolves. Eppure due passanti si succhiano l’uccello a vicenda affermando che bisogna chiamare subito i paramedici, che non bisogna toccarmi e che, se nessuno si improvvisa infermiere solo perché ha imparato a disinfettare una ferita tramite Wikihow, possono ancora salvarmi. Nel dubbio, una delle tante Esmeralda Juanita Sofia del quartiere si segna e recita una preghiera in spagnolo. Non può però nulla il suo dio portoricano specializzato in World Series di baseball, così come è inutile l’arrivo di un ambulanza guidata da un fan dei Patriots che si è tatuato la data di nascita di Tom Brady sul polpaccio. Mezz’ora dopo mia madre piange in Post Office Square; mio padre cerca un biglietto aereo per rientrare da Columbus; le mie sorelle della ΚΑΘ anticipano le esequie religiose con quelle su Facebook, postando il mio sorriso ipocrita da fascio-stronza bianca. James, infine, ascolta I Don’t Wanna Miss a Thing ripensando al nostro primo bacio, quando ancora io stavo con Steve e lui con Cassandra Brown. Spero solo che ora a quella stronza bulimica insicura fan dei Jonas Brothers non venga voglia di consolarlo; o che, ancora peggio, non racconti sui social che eravamo amiche.(continua)

Kill All The White Man – Ep. 01

Il mio nome è Karen Jackson e questa è la mia storia. Quando vedo gli adolescenti baciarsi mi parte Ever Fallen in Love dei Buzzcocks. Un poco per invidia e un poco perché ho visto troppe volte le repliche di Scrubs. Per ciascuna JD c’è una Elliot, ma io non ho ancora capito quale sono tra i due. A volte sono una compilation di insicurezze e tendenze all’autolesionismo che trova conforto solo nei meandri del proprio monologo interiore. Altre volte sono un’egocentrica repubblicana bianca figlia di una famiglia a reddito medio-alto convinta che le persone circostanti siano solo delle pallide comparse tra una scopata e l’altra. Quel che so di certo è che questo è l’ultimo giorno della mia inutile vita. A breve un autobus non si fermerà allo stop, schiacciando e annientando tutto quello che ho imparato alla Boston Latin School e poi alla scuola di giornalismo ad Harvard; tutti gli slogan da viziata malata di cazzo gridati da cheerleader; tutte le gite invernali nel Montana, trascorse a bere fino al vomito e a postare i miei lampi di tristezza glam attraverso il sorriso perfettamente bianco dei miei selfie su Instagram; tutte le promesse fatte a James, abbastanza facoltoso da fare felice mie madre e abbastanza dotato da fare felice me. Perciò non menatemela con Morrissey, ché non ci vedo nessun piacere o privilegio nel crepare ventitreenne, non se l’autobus non è quello rosso e doppio, e tantomeno qui, diamine, nel quartiere caraibico di Boston, dove mettono i cartelli “No Whites” all’ingresso delle caffetterie e dove mi sento emotivamente lontana dalle costruzioni vittoriane di Beacon Hill e da quell’aria un po’ europea che renderebbe meno squallida e deprimente la mia dipartita. Dio, non farmi morire in mezzo ai fottuti cubani! (continua)

 

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Ciuff Ciuff

Quel treno non emetteva l’onomatopeico ciuff ciuff, ma baritonali sbuffate di gasolio. Tu disegnavi priapi come se fossero cuori, canticchiando spensierata un brano di Fatboy Slim. Ti guardavo le cosce, perché non potevo fissarti il culo, ma avrei dovuto sollevare lo sguardo. E non perché non indossavi il reggiseno, ma perché il tuo cuore batteva forte, forse già un po’ per me. Quel battere di un’onomatopea ineffabile, forse ciuff ciuff.

Il desiderio di un “per sempre”, perorando il “per ora”, adorando un’irritante ziggurat di “chissà”. E nel mentre il controllore verificava a quale gruppo apparteneva, se tra gli opportunisti, i vigliacchi, o gli opportunisti vigliacchi. In fondo serve vidimare il biglietto della prima classe ed esibirlo, prima di essere benedetti da una pleonastica passati di calci nel culo. Che poi io sono slave, e prenderle mi piace pure.

così, per dire.