Il mio nome era Karen Jackson e ci sono diversi motivi per i quali il mio fidanzato non crede che sia quel boiler succhiacazzi di Bradley il mandante del mio omicidio. In primo luogo perché certa gente ha paura delle violenza, anche se poi difende il secondo emendamento come qualsiasi altro coglione bianco nato in una nazione dove a qualsiasi bifolco con il quoziente intellettivo di un procione lobotomizzato viene offerta l’opportunità di esibire un documento falso e portarsi a casa un fucile d’assalto con il quale sterminare un’intera comunità Amish. Inoltre Bradley non avrebbe mai avuto le palle per ordinare di farmi fuori come un battitore al terzo strike: non è un frocio elegante e potente come Clay Shaw, ma una barzelletta antropomorfa come un Peter Griffin finocchio. E una simile mezza-sega passerebbe tutta la vita a cacarsi sotto temendo di essere scoperto, un poco come un bimbo che ha lasciato le impronte sull’impasto dei muffin materno. Terzo punto, anche se Bradley non è suo padre, cioè un puritano tanto radicale che nell’intimità incula la moglie pur di non offendere il suo dio con l’abominevole e innaturale utilizzo del profilattico, si è probabilmente reso conto che la morte di una ricca figlia bianca da cunnilingus al country club, maine coon in salotto e passeggiata con golden retriever di razza ogni santa mattina, avrebbe sollevato qualche interrogativo, compresa la curiosità di un investigatore desideroso di mettere le mani nei miei hard disk. E a quel punto non ci sarebbe stato importo capace di comprare il silenzio su certe fotografie compromettenti. Perciò no, Bradley avrebbe potuto, ma probabilmente non ha voluto (continua)
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