Ma il coccodrillo come fà (accento?), parappapapaaaaaaaaaaaaa!

L’unica inculata nella nostra esistenza è il tempo. E non perché la vecchiaia ci spaventi, dioccane no, mappe ma per via delle scadenze, e di tutti quei conti che non facciamo mai in tempo a pagare. Ok, magari voi ci riuscite, ma io no. Mai! E i creditori, santoccielo, ma quanto sono seccanti i creditori?

Certi creditori ti seguono come cocco dritti coccodrilli affamati, spesso in paludi in cui lame male la melma è tanto densa da impedirti i movimenti liberamente. Vogliono farti la festa (i creditori), nemmeno ti fossi violentato l’alloro la loro bimba minorenne (loro = creditori). E te la faranno (la festa), credimi! Sei fregato, perché i creditori sono in placabili implacabili soprattutto sessi se si parla di te un po’ tempo.

Puoi mangiarti un ragno, se vuoi. Oppure un anfibio salma stronzo salmastro zoppo da chissà quando, per quanto in tanti com’inchino comincino a tracannare acqua stagnante e malsana come se fosse la miglior vodka. Finché non si finisce 3 molari ti ha saggi re tremolanti ad assaggiare le feci altrui, merda succo lenta succulenta appartenuta all’ultimo banchetto del predatore che si ape resta appresta a squarciarti la coscia con un morso.

Se tutto va bene, piove. Magari una coppia di preti di merda insospettabili pedofili ti nota; poi si incula un ragazzino prega per te; infine chiede scusa a dddio si masturba, perché la vista del sangue è esci tante eccitante. Ed è eccitante è anche sentirti gridare come un ho sesso ossesso, mentre quel male detto maledetto coccodrillo ti divora come se non mangiasse da una settimana, implacabile come solo la natura sos sa essere.

Non è come nei film, dove tutto a viene avviene in fretta, si conosce una un un bar e la si scopa subito con un brano anni 80 in sottofondo, e si risolve il tutto con un cambio di in qua radura inquadratura su una chiazza di sangue… no! Cazzo, no! È molto più ha ghiaia ante agghiacciante, lungo, devastante. Quel maledetto ha maiale animale si prende tutto il tempo a sua sadicissima (brand new neologismo) disposizione,  facendoti lentamente a pezzi e godendosi la tua stupida carne.

Che poi fosse per me i coccodrilli sarebbero estinti, assieme alle zanzare, assieme ai topi, assieme ai Modà, i Negramaro, Ligabue, quelli che su instagram spammano fit-line, i puffi, i buongiornisti e…
Ci pensi? Hai fatto diete macrobiotiche, tanto sport, hai cercato di non annaffiarti con l’alcol e non rovinarti con le droghe. Tutto questo per diventare una cazzo di merenda per uno stracazzo di merdosissimo anfibio… CAZZO!

Ecco le mie pillole. Mi calmo, sì, mi calmo. Miccalmo!

Calmo!

PS: non ho avuto tempo di correggere, quindi in teoria non dovreste leggere la roba cancellata.
P. PS: questo contenuto forse non è adatto ai bambini. Se vi piacciono i puffi non leggete.
P. P. PS.: mi scuso con i fan dei Modà. Non volevo infastidirvi, ma cazzo, avete idea di quanto cazzo mi infastidiscono i vostri stracazzo di Modà.
Ps reload: perdonate il turpiloquio.

La Mistress mi stressa.

Il Bull si svegliò poco dopo le dieci del mattino, tre ore dopo essersi addormentato. Nello stesso momento in cui si era alzato dal letto, aveva paradossalmente sperato che un qualche fenomeno paranormale, o divinità metafisica, avesse cancellato l’eccitante, ma sanguinoso, weekend appena trascorso.
Non aveva un’idea precisa delle ragioni psicologiche che avevano trasformato una domenica orgiastica in un brutale omicidio, ma gli venne il dubbio che la Mistress avesse deciso sin da subito che quello non dovesse essere solo un semplice gioco erotico. Era altresì certo che la pistola non fosse stata posizionata nel primo cassetto del comodino per puro caso. Ad alleviare solo in parte i sensi di colpa, la vittima – un trentasettenne disoccupato che abitava e viveva solo – era probabilmente morta sul colpo, senza soffrire.
Il cadavere ripulito dalle impronte digitali era stato abbandonato davanti al piazzale di una chiesa di periferia. Le indagini, come spesso capita quando a finire brutalmente è la vita di chi lascia pochissimi affetti, sarebbero state circoscritte a qualche domanda qui e là alla gente del quartiere e a una breve serie di relazioni, senza tutto la scrupolo che sarebbe stato opportuno usare. Il fatto che il poveraccio avesse assunto prima di morire un’ingente quantità di narcotici, oltre alla presenza sul suo corpo di ferite e lividi che potevano suggerire una colluttazione, avrebbe quasi sicuramente fatto archiviare la vicenda come un’esecuzione voluta da qualche pusher. Così, celata l’indeterminata definizione di “spacciatore”, avrebbe trionfato l’impunità, con buona pace di chi credeva a certe vaccate sulla giustizia. Sicuramente nessuno si sarebbe scandalizzato.
I carnefici non erano certo preoccupati dalla galera. Erano ricchi, avevano un ottimo alibi e potevano definirsi amici di un buon numero di rinomati avvocati penalisti.
Il Bull in particolare, che si sentiva assassino anche se non aveva premuto il grilletto, non aveva ipotizzato, nemmeno per sbaglio, che quella vicenda potesse costringerlo alla galera. Già pochi minuti dopo lo sparo, mentre trascinava per le caviglie il corpo esanime della vittima, i suoi pensieri erano comunque concentrati su chi era rimasto vivo. Era preoccupato della Mistress, che viveva la consapevolezza da omicida in preda all’eccitazione e non al rimorso.
Anche se lei continuava a ripetere di essersi semplicemente difesa, il Bull non le credeva. Non a caso, le chiese semplicemente di tacere e dargli una mano a spogliare il cadavere. La donna lo aiutò solo in parte: per denudare la vittima usò un paio di forbici, con la presunta intenzione di far prima. In realtà creò nuove ferite, con uno strano sadismo da necrofila. E anche se parlò di errore, evirare il morto fu un gesto assolutamente premeditato.
Il pene della vittima era ora sotto formalina, conservato assieme alle olive sotto il lavandino della cucina rustica. Non era un vezzo, ma l’inizio di una collezione.

Coprimi.

Sembrava che tutti gli incapaci al volante si fossero dati appuntamento sulla statale che dal lavoro mi riportava a casa. C’era uno di quegli ingorghi che sembravano voluti da Dio in persona, tanto per rimarcare quanto Nostro Signore detesti l’automobile. Possiamo dargli torto? Alla fine credo non esista peggior bestemmia delle migliaia di Fiat Duna acquistate negli anni. Dio lo sa e perciò si incazza.

Si procedeva a passo d’uomo e l’unico conforto possibile era la radio. Tuttavia, una volta sintonizzatomi su un’emittente a presunta programmazione rock, mi sono trovato ad ascoltare le stronzate buoniste di un DJ cinquantenne. Se c’è qualcosa che odio, sono certe fesserie del genere “la gentilezza è rock”, “rispettare gli altri è rock” etc… Secondo me non c’è nulla di più rock di uno squat occupato e chili di droga proibita da spararsi in vena, ma magari lo è anche aiutare le vecchiette ad attraversare la strada.

Comunque ero irritato sia per il traffico che per le parole del DJ, quando improvvisamente cominciò un brano cantato da una di quelle cantanti contemporanee che conoscono solo i vocalizzi ma non il raschiato. Si trattava di una ventenne con i capelli rossi appena partorita (o se preferite, “cagata fuori”) da uno di quei talent show dove vanno i rapper che vogliono bene alla mamma, i metallari che dedicano canzoni alla loro nonna e artisti di strada che alle anfetamine preferisco tonnellate di fruttolo (se ti piace la frutta, ficcatela in culo!)

Ad inquietarmi non era la canzone in sé, che tra l’altro aveva un insolito arrangiamento soul per essere suonata da un canale rock, ma il testo. Parte del brano infatti citava esplicitamente il ritornello di Cover me, che pochissimi tra voi magari hanno sentito in radio nei primi anni 90. Quella canzone era mia… anzi è mia, ma non ne possiedo i diritti. La scrissi a Londra, quando avevo appena chiuso con la mia ex, che mi aveva beccato a letto con sua madre. Essendo all’epoca in bolletta, le droghe erano piuttosto care, cedetti la canzone a un gruppo new wave, che la rese popolare per qualche settimana.

Era strano ascoltare come quella ragazza interpretava le mie liriche. Mi affascinava come enfatizzasse una parola o un’espressione piuttosto che un’altra, come riuscisse a trasformare tutta la malinconia che mi avevano guidato alla scrittura in un sensuale ottimismo erotico. Per un attimo sorrisi, anche se alienato dal sentire come qualcosa di assolutamente mio risultasse completamente diverso e alieno. Quindi sono tornato sulla terra, ad incazzarmi per il traffico e provare nostalgia per quei tempi magici in cui non avevo soldi per drogarmi ma potevo scegliere chi incularmi.

Acluofobia

Intrisa ignoranza nel fiore della tradizione, favole metafisiche o creta da plasmare, amore e dolore della sacrale diffusione orale. Il carcinoma indomito delle credenze popolari, piromani dell’irrazionale ingrassati dal cuore ingenuo, mantecati da soffocante e pomposa cecità radicata. Un passo di danza negato dalla millenaria crociata contro la fisica, la medicina, la filosofia. Perché tanto astio ineffabile contro quel falso dramma chiamato felicità?
«Ho paura del buio!»
«Non sei la sola!»
«Anche tu?»
«No», rispose la madre. «Mi rabbuio quando hai paura».
Poi l’emancipazione adolescenziale pruriginosa, seta sfumata al nero pece, calvari rovesciati sonanti di triadi maggiori in acciaio. Tu, capra prigioniera di un giogo dismesso molti belati fa, belavi blasfema e irriverente, belavi ribelle, belavi rabbiosa, ma pur sempre belavi. E il tuo subconscio inesorabilmente marcato dalle roventi fiabe a lume di punto croce, purezza vergine fagocitata dal reiterato passato, e istruita definitiva all’immortale acluofobia.

Requiem for a paninaro.

Finale gravitazionale, come frammenti di cristallo che diventano bicchiere. Senso di colpa generatore di peccato, rivoli di sangue rampicanti su carne, ferite ricucite in filo di lama.
Buoni Cristiani timorati di Dio prima dell’arrivo dell’infarto, consumatori convinti dell’onanismo in punto di morte, sorriderete al destino con gli ultimi denti da latte, che cresceranno brillanti come stelle cadenti nascenti. Oppure polveroso oblio, un nome scolpito e infine il marmo intonso.
Polmoniti candide vergini dei vizi, colpi di tosse arrossati a macchiare confortanti radiografie. Accettazione, lacrime, consapevolezza, mancata presenza, scarsa presenza, poca presenza, minore presenza.
Presente.
Vergogna da adulterio coniugale, la miglior scopata della loro vita, in sottofondo la notte che è come un filo elettrico, affamati di figa più affamati del lupo, sposarsi la mancata moglie di Simon Le Bon. Ribellione adolescenziale di un meraviglioso errore partorito all’inizio.

4 A.

Una quasi favola

Era morto. Era morto per stupidità.
«C’è un piccolo topo», mi disse giorni prima, «un piccolo topo che gira per il mio cortile».
Ok, un piccolo topo. Ma un piccolo topo, a casa mia, era comunque un topo. Come un uomo poco armato che non si distingue da uno molto armato, entrambi sono potenziali assassini, un piccolo topo deve spaventare come un grande topo, in particolare se veicola malattie.
La chiamavano ME&TE: quella una significava Metaqualcosadiqualcosadaltro, una roba da medici diciamo. Definiva una rara e insignificante malattia, quasi innocua per il genere umano, che, a quanto pare, solo alcuni piccoli topi riuscivano a veicolare. All’epoca, come oggi, per catturare un topo non serviva una grande trappola, ma una trappola efficace. Perché se è inefficace, non la si chiami “trappola”, ma “diversivo”. Ma il mio amico si lasciava comprare dal concetto grande = migliore, e acquistò la trappola più grossa che vendevano allo spaccio. Non c’entra nulla, ma Sam, che gestiva lo spaccio, è ancora vivo. E così un topo molto piccolo, che veicolava la ME&TE, passò attraverso una grande trappola, che poi trappola non era, raggiungendo un essere umano e trasmettendogli la malattia. E mentre il vecchio Sam piazzava piccole trappole di fronte a casa sua, il mio amico era morto, era morto di stupidità, e di <em>Me&Te</em>.

Quasi morale della quasi favola: una malattia è classificata come “quasi innocua”, non è innocua.
Analogamente, ho capito che non posso mai essere quasi felice, o quasi sazio, o quasi eccetera.

Anna.

Era la notte di San Silvestro del 1979 e, per motivi che a breve capirete, mia madre non aveva alcuna voglia di far festa. In ospedale, il personale di turno era così ridotto all’essenziale da risultare insufficiente in caso di improvvisa emergenza, emergenza che, per fortuna di tutti, quella notte non si verificò. L’atmosfera era anzi tanto rilassata, che in uno sgabuzzino del quarto piano, dove a rigor di logica dovevano esserci solo scope e grossi rotoli di carta industriale, qualcuno accoglieva il 1980 nella maniera migliore: un’infermiera ventenne si stava lasciando scopare da un internista trentacinquenne che, da quanto le aveva raccontato, era in pieni crisi coniugale. Presunta crisi coniugale a cui aveva creduto anche mia madre, ingravidata in primavera da un coglione che, pochi giorni prima della mia nascita, era diventato padre di Anna, la mia sorellastra. Così, poche ore dopo la mezzanotte, all’alba del Capodanno del 1980, sono nata io.
Nei giorni successivi, mio padre venne a riconoscermi, e non si presentò da solo. Nella nursery, la moglie di papà conosceva per la prima volte mia madre, stranamente amichevole, e la perdonava per essersi portata a letto il marito, proponendole anzi di trasferirsi in una casa sfitta non lontana dalla loro, in modo che io e Anna potessimo crescere vicine. E nell’imbarazzante silenzio dei presenti, convinti che mia madre spolpasse viva la legittima consorte del padre illegittimo di sua figlia, si udì la sola risposta che chiunque quel giorno avrebbe escluso a priori: «farebbe piacere anche a me che le bambine crescessero vicine», disse infatti, «e non mi dispiacerebbe se tu mi perdonassi».
E così Katia perdonò mia madre. E nelle settimane successive cominciarono davvero a frequentarsi: si vedevano per un tè o un toast; si facevano le unghie a vicenda; si prestavano i dischi. Io e Anna venivamo educate come sorelle, obbligate a rispettarci, essere leali e solidali l’un l’altra. Il mattino, quando Katia lavorava, era mia madre ad occuparsi di entrambe; il pomeriggio, quando mamma faceva la cameriera in un bar cittadino, stavo a casa di papà. Venivamo pettinate in modo identico, oppure simmetrico: se Anna aveva la coda sulla destra, io l’avevo a sinistra; se lei aveva la riga da una parte, io l’avevo dall’altra. Ovviamente ci compravano gli stessi vestiti e le stesse scarpe. In breve, io e mia sorella abbiamo trascorso in simbiosi il primo biennio delle nostre bizzarre esistenze.
L’unico non coinvolto in questo strano circo del “volemose bene comunque” era papà, che ne era la causa. Se passava del tempo con me, non lo passava con Anna, e viceversa. A lui non piaceva che le due famiglie crescessero assieme. Soprattutto non sopportava Francois, il compagno corso di mia madre. Francois era un cuoco francese che, in due anni di convivenza, avrò visto sì e no tre o quattro volte con indosso un paio di mutande. Aveva un pene grosso quanto alcuni miei bambolotti, e credo che quel cazzo da bovino fosse l’unico motivo che lo legasse a mia madre. Il francese era un perdigiorno cronico, rumoroso e perennemente in bolletta. Una donna sana di mente lo avrebbe lasciato dopo 2 ore: mia madre ci mise due anni a levarselo dalle ovaie.