Anyway the wind blows…

Eri abituato a vedere il prossimo pendere dalle tue labbra, ora aspetti educatamente in coda che si decidano ad occuparsi di te. Davi in escandescenza per un nulla, ora non ti incazzi nemmeno quando dovresti. A loro non importa chi sei stato, l’importante è che rispetti le regole, le loro regole.

Così anche se il medico è in ritardo, si dispensa dalle scuse, e non sarà certamente la segretaria a farlo al posto suo; però tuoneranno a voce alta che devi prendere il tagliandino, anche se in realtà lo avresti già preso.

Ma non importa. Ripeti codice fiscale e numero di telefono a memoria, sorridi, poi te ne freghi se assomigli a tutti gli altri e, soprattutto, non badi troppo al fatto che “tutti gli altri” sono troppo identici al come non vorresti essere.

Siamo nell’era dei social, dei tuoi terrificanti coetanei sui social, e dunque è tutto un riverbero di video azionati da FB o Youtube: e sticazzi se a te frega nulla, loro condividono con volumi da arresto. Certo, sarebbe bello che parlaste de Il Carosello o dei Beatles, ma loro sono impegnati a credere a tutte le bufale iperboliche che trovano in rete.

Infine arriva il tuo turno e fai come ti dicono di fare, circondato da persone che, bene o male, con te non sanno che pesci pigliare: forse perché sei diverso dalla norma, tu ti lamenti solo quando stai davvero male.  E in fondo è questo che disturba certi medici, il cospetto di pazienti che seguono le istruzioni alla lettera.

Nel tuo passato c’è l’Africa, una dittatura sanguinosa attraverso la quale sei passato senza problemi, mostrando quel cazzo di pelo sullo stomaco che tanti tra noi non avranno mai; hai pagato carissimo ogni singolo errore, e ci si è dimenticati di quando sei stato generoso, molto generoso.

Deve essere strano essere te, deve essere strano vivere ogni singolo disagio fisico come un motivo di disturbo per il prossimo e non come un tuo personale momento di sofferenza. In fondo le circostanze ti hanno privato di tutto ciò a cui tenevi, e ok, puoi fartene una ragione; ma mi lascia a bocca aperta osservare che non protesti per la privazione che lentamente devi subire della tua reputazione, perché quella, ne sono certo, te la sei merita.

Comunque hai buoni amici che ogni tanto si ricordano di te, e forse tanto ti basta; o forse no, ma tanto non ce lo fai sapere. Per te, come sempre, è tutto bene!

Follow me.

Per sentirci in pace bisogna compensare la frustrazione, in un modo o nell’altro: a volte è sufficiente un esame di coscienza, altre volte serve una drastica rivoluzione esistenziale. Poche però sono le volte in cui si dice reset e poi si cambia davvero, in genere si torna inevitabilmente sugli stessi inutili vizi. Esistono molti modi di vivere un fallimento, sia dal punto di vista emotivo che dal punto di vista sociale.

L’errore maggiore è l’aspirazione iperbolica, cioè porsi come obbiettivo un tipo di realizzazione che il nostro modus vivendi trasforma in un traguardo improbabile. A 40 anni non puoi metterti in testa di sfondare come musicista Pop, e, se non hai mai dipinto, non aspettarti di diventare ricco con i quadri; non dico che queste strade siano impossibili, per carità, le eccezioni esistono, ma sono improbabili. Se a 30 anni non sei un manager, non lo diventerai a 35; se a 35 anni sei inadatto per fare il padre o il marito, non cambierà nulla un lustro dopo.

Il vero segreto, secondo me, è capire che non sia necessariamente un problema. Arriva un punto della nostra esistenza in cui serve un’analisi razionale delle nostre potenzialità e un successivo incanalamento delle stesse verso un regime di vita soddisfacente. Conosco molti adulti frustrasti, spesso prigionieri di esistenze nate proprio dopo il reset. Ci sono persone che, per dare una svolta a una vita senza amore, senza lavoro, senza hobby, hanno colto le primissime occasioni capitate in modo aggressivo e apparentemente profondo, per trovarsi tempo dopo prigionieri di loro stessi.

In cuor mio sono felice delle mie scelte: ho detto no all’amore quando comunque mi sono reso conto che la relazione comportasse più malus che momenti di benessere; ho detto no a situazioni professionali inadatte a me e potenzialmente logoranti; ho detto no a tutta la retorica dell’alibi, al dover sempre dare una spiegazione quando la mia vita appare convenzionalmente come quella di un fallito. E mi piace.

Negli ultimi anni ho ricevuto tante proposte di collaborazione, spesso arrivate da persone a cui piaceva qualcosa di me o che addirittura vedevano in me delle potenzialità diverse dalla norma. Ma hanno sempre imposto le loro condizioni e a un certo punto sembrano essersi chiesti come mai non combattessi per contrastarle. Puoi lavorare sottopagato, ma non puoi farlo gratis. E spesso ci si affida a chi ti offre lo stesso servizio per 100 euro in meno. Non importa che magari sia molto inaffidabile, chi si ne frega: funziona così.

Noi giovane partita iva, siamo la generazione della gavetta: facciamo gavetta da 10 anni e la faremo per altri 10, finché non avremo la decenza di toglierci la vita e lasciare questo mondo a quelli che “se ascolti me, poi cresci!!”

2 giorni fa ho twittato Non ho figli perché non mi va di spiegar loro un giorno che i padroni del mondo siano i figli di papà. E ne resto convinto. I miei amici che hanno fatto qualcosa di buono, erano figli di papà, persone cioè che potevano permettersi di non fare un cazzo nel momento in cui noi altri eravamo obbligati a far qualcosa. E il mondo va così, in genere chi ti invita a fare sacrifici, non ne ha mai fatti davvero.

… e rimetti a noi i nostri debiti.

Lo avevano convinto. Era ormai persuaso che i suoi non fossero che pretesti e inutili alibi. Poi successe. Successe di trovarsi in mezzo a quel mondo che gli era stato negato… successe di provare piacere. Certe sfumature non possono essere spiegate con le parole, perché la percezione di certi contesti è assolutamente complessa. Credo non sia solo una questione di persone: è più un concatenamento di situazioni e meccanismi sociali circoscritti e singolari, è una coralità profonda e spesso sottovalutata. L’unico modo in cui lo so raccontare è questo: è come se cinque/sei persone, sognassero contemporaneamente ad occhi aperti.

Ed è magico, risplende di un ottimismo spesso paradossale con lo stato effettivo della realtà circostante. Non esiste malinconia, non esiste rimorso. Esiste solo la consapevolezza di aver fatto parte, un giorno passato, di una complessa ed estesa macchina vincente. La pausa era davvero tale, e aveva un sapore intenso con il retrogusto del caffè. E poi c’era il sole, che spessoera un alleato ma molte altre volte è un avversario vigliacco. Aveva dimenticato certi profumi e certi suoni; aveva dimenticato quel modo di sorridere; aveva dimenticato quanto amasse il suo lavoro, e parlarne con altri che lo amavano altrettano.

Stare in cantiere è una fortuna che pochi percepiscono, in un mix di goliardia e cameratismo. In passato alcune persone avevano affidato la loro vita nelle sue mani, nonostante fossero molto più adulte ed esperte di lui. Ed è questo che spesso ci si dimentica. No, non sono alibi. Un caro amico aveva scelto di non affrontare un brutto male che lo avrebbe comunque condannato, e lo aveva scelto molto prima di Monicelli. E il loro sistema sociale aveva il cancro e molti lavori onesti non erano che arti in necrosi. Sorrise prima di brindare con una birra al proprio suicidio, sperando che alle nuove generazioni girasse meglio.

Now I could lie by your side
All serrated for you
Down below cancer grows
Weeping waits inside you too
All our rage begs a stage
It’s a waste of time though
And you style seems worthwhile
But this lonely road has turned

Offspring – Vultures

Lunedinsella – Lorenzo come Rossi!

A Valencia è terminata la stagione 2016 del motomondiale e, appena due giorni dopo, è cominciata quella 2017. Ovviamente gli occhi degli appassionati erano puntati soprattutto sul binomio Lorenzo-Ducati, perché nemmeno nel 2016 si è dissipata la percezione che la rossa resti molto complicata da guidare. Ci si attendeva il doppio miracolo, sia quello del maiorchino, che doveva magicamente tramutarsi in Stoner, sia quello della desmosedici, che doveva diventare dolce come una Yamaha. Non è successo.

Succederà?
Secondo me no, e provo a spiegarmi.

1. Le regole.
Nel 2017 saranno vietate le appendici aerodinamiche. Ducati perderà quindi alcuni vantaggi di cui ha goduto nel 2016. La rossa, senza gli “alettoni” tende a sollevarsi, quindi diventa ingovernabile in accelerazione. In soldoni, durante la corsa, sarà necessario uno sforzo fisico notevole per tenere l’anteriore “basso”. Questo significa maggiore fatica e decimi buttati accelerazione dopo accelerazione.

2. Il carattere.
Ducati resta ruvida, alette o meno. La versione 2017, secondo Dovizioso, ha i limiti di sterzata tipici della rossa. Questo significa che Lorenzo, da sempre emblema della guida pulita e precisa, si troverà privato o comunque limitato di una delle sue caratteristiche peculiari.

3. Lo staff.
Lorenzo perde Ramon Forcada e trova Cristian Gabarrini. Il feeling sarà differente, anche perché Gabarrini negli ultimi anni ha lavorato in Honda e non in Ducati. Di fatto il maiorchino dovrà non solo abituarsi a una nuova moto ma anche a un nuovo capotecnico.

4. Le piste.
Ducati nel 2016 ha vinto due gare: Austria, dove aveva un vantaggio tecnico notevole; Sepang, dove il bagnato ha fatto la differenza. Ipotizzabile che nel 2017 Honda e Yamaha cercheranno di recuperare qualcosa in Austria; ipotizzabile che non sarà sufficiente che piova nelle piste con rettilinei chilometrici (Qatar e Austin in particolare).

5. Il livello tecnico.
Rossi ha corso in Ducati nel biennio 2011-2012 e in squadra aveva Hayden. I top rider erano Lorenzo e Stoner. Gli uomini da podio Pedrosa, Spies, Simoncelli (2011), Bautista (2012), Dovizioso e Crutchlow. Lorenzo troverà una situazione più complessa: Marquez sarà il favorito. Vinales e Rossi saranno sicuramente molto vicini al 93. Pedrosa, Crutchlow e Iannone potranno aspirare a vincere almeno una gara. Folger e Zarco, stando ai test o addirittura Espargaro (Aleix) potrebbero puntare a qualche podio. In squadra avrà Dovizioso e il nucleo composto da Redding, Bautista, Petrucci.

Potrei però sbagliarmi.

1. Le regole.
Dall’Igna ha fatto tanti step positivi in questi anni, riuscirà a inventarsi qualcosa di diverso e altrettanto efficace.

2. Il carattere.
La Yamaha in mano a Lorenzo non girava come in mano a Rossi o Ben Spies. Il maiorchino nella fluidità di guida ci mette anche del suo. Inoltre la Aprilia 250 non era esattamente un giocattolo.

3. Lo staff.
Gabarrini è comunque esperto, ha lavorato con Stoner e nel 2016 è salito sul podio grazie alla vittoria di Miller. Ducati inoltre è nel mondiale da 15 stagioni, un numero sufficiente per poter parlare di grandissima esperienza.

4. Le piste.
La rossa nel 2016 è sembrata fuorigioco per il podio solo a Jerez e Barcelona. Iannone e Dovi hanno raccolto 2 vittorie e 9 podi (10 con quello di Redding), in un contesto in cui Honda e Yamaha schieravano 5 top rider e Suzuki volava con Vinales.

5. Il livello tecnico.
Marquez è il solo che può fare tanta paura a Lorenzo. Lo dicono i numeri e lo dice il titolo straordinario del 2016. Rossi è veloce e furbo ma ha la sua età; Vinales ha potenzialità, ma la MotoGp insegna che si vince solo quando si vince. Pedrosa – Dovizioso – Iannone – Crutchlow sono veloci, ma non sembrano al livello di Lorenzo. Solo Iannone potrebbe diventare la folle incognita del mondiale. Se Lorenzo non vorrà vincere subito, potrebbe arrivare ai primi.

Queste ovviamente sono impressioni. Le vere risposte, le avremo dalla pista.

Anna.

Mi chiamo Anna, ho quarant’anni e sul collo ho segni che non posso non vedere ma che non voglio coprire. Ora cammino sotto la pioggia con il mio ombrello bordeaux, sperando che a giorni arrivi la mia adorata neve. Canticchio When You Are Gone in attesa del mio ragazzo: dovremmo andare a cena ma probabilmente non ci arriveremo mai. È la prima volta che vedo da vicino la canna di una pistola, ma vi giuro che avrei preferito che il caso mi dispensasse da questo genere di esperienza.

Continua a leggere “Anna.”

Nevermind – ID

Non importa. Punto.
L’unica risposta alla domanda che ti pongono costantemente è “non importa”. Perché è vero: non c’è rimorso; non c’è rancore; non c’è pentimento. Semplicemente non importa. E mentre molti altri si sbattono e cercano di rialzarsi, ricostruirsi, rigenerarsi, tu scegli un vecchio plaid, un tè caldo, e l’ennesima replica di Don Camillo. Non sei spaventato dal tuo futuro, forse perché ti spaventa maggiormente, alla tua età, dover ancora obbedire a certi luoghi comuni sul cosa ci debba o meno inquietare. È come quando piove e hai appena lavato la macchina: c’è chi si infuria e bestemmia; c’è chi sorride e la butta sul sarcasmo. Tu, ti limiti a ripetere che non importi. Sei saggio, ma inutilmente: sei solo un seme che non verrà mai piantato, l’ennesimo seme che non verrà mai piantato. O forse nemmeno quello.


You sold your soul to the man
Another deal a deal gone bad
Another seed that never gets planted
Corporate insects destroy our planet

(Pulley – Insect Destroy)

Mi avete rotto il cazzo – Traccia 3

I Lunapop suonarono bene, credo. Dico “credo” perché non ricordo un solo frammento del concerto e anzi, ad essere sincero, vicini al palco non ci arrivammo mai. Ci fermammo prima, molto prima, in un appartamento in cui abitavano alcuni nostri compaesani che frequentavano, si fa per dire, l’università. Non ero gradito, ma erano cugini e amici di Y e decisero di tollerarmi. Passammo la notte a bere birra, bere vino e bere superalcolici; se l’acqua santa fosse stata alcolica, avremmo bevuto anche quella. Ci stordimmo, nel senso che ci ubriacammo come marinai in licenza, con tanto di countdown all’una del mattino e parecchie capatine per strada a vomitare. Ci esibimmo in qualsiasi comportamento potesse essere definito come molesto. Ci congedammo verso le tre e un quarto, quando i vicini di casa, dopo reiterate minacce di chiamare i Carabinieri, ci aggredirono, ci immobilizzarono e ci chiusero fuori dal palazzo. Parlo al plurale, ma, in realtà, quello rumoroso ero soprattutto io. Solo io in realtà. Era comunque giunta l’ora di andarcene: alle 4 la madre di Y sarebbe passata a prelevarci. L’appuntamento era sul Colle di San Lorenzo, davanti al vecchio carcere. La prigione di Cagliari era intitolata a Nostra Signora del Buoncammino. Lezione uno sui sardi: Dio piace poco, preferiscono la Madonna; credo ciò abbia a che fare con la nostra cultura fondamentalmente matriarcale, soprattutto in Barbagia. Santi a parte, la caratteristica del carcere di Buoncammino era il suo grado di efficacia: in 120 anni di attività, nessun detenuto è mai riuscito ad evadere; una statistica, se ci pensiamo, degna di Alcatraz.
«Tua madre è in ritardo».
«Hai da fare domani mattina?»
«Sì», sorrisi, «chiavarmi tua madre mentre tu dormi».
«E allora non fate troppo rumore», concluse, «almeno a Capodanno vorrei dormire fino a tardi».
Di Y ricordo fondamentalmente tre cose: si lavava i denti nel bidèt; aveva senso dell’umorismo; non riusciva mai a svegliarsi più tardi delle otto, nemmeno la domenica. Quando qualcuno gli chiedeva che piani avesse per il futuro, lui ripeteva che avesse intenzione di svegliarsi tardi, almeno di domenica. Io, al contrario, per la fine del liceo avevo in programma di sposarmi con Daniela. Il problema era che lei nemmeno conosceva il mio nome. In realtà nemmeno mi salutava e anzi, in cinque anni di liceo credo non mi avesse mai visto in giro per la scuola, se non due o tre volte. Non ero esattamente una persona popolare. Inizialmente avevo fatto fatica ad inserirmi, ma con il tempo ci avevo proprio rinunciato. Ero antipatico e permaloso, ma se fossi stato bravo a giocare pallone mi sarei comunque fatto degli amici. Non lo ero però, ero un pessimo giocatore di calcio e, ancora peggio, un pessimo amico. In poche parole, a scuola, me ne stavo principalmente per conto mio e questo aspetto sembrava non disturbare nessuno, me compreso.
«Eccomi», disse sua madre, arrivando all’alba, «scusate il ritardo».
«Si figuri signora», replicai in modo educato.
Y non disse nulla, si mise sul sedile posteriore, calò il cappuccio sulla testa, si rannicchiò in posizione fetale e si addormentò sulle note di Such a Shame. Immaginate un Opel Corsa viola; immaginate una quarantacinquenne, alla guida, che osserva assonnata la strada; immaginate un quasi ventenne, seduto davanti, che si gode il paesaggio nonostante la faccia post-sbornia; immaginate un altro quasi ventenne, dietro, che finge di dormire. Eravamo in silenzio nonostante la radio accesa, il volume della musica era tanto basso che potevo percepire il rumore del rotolamento degli pneumatici sulla strada: strana la vita, quando facevo io il liceo, dovevi chiamarli “gli pneumatici”, oggi se usi “i pneumatici” nessuno ti sgrida. Ero infastidito, ero infastidito dal sapore di vomito in bocca, nonché da quello dell’alcol; senza scordare la sonnolenza e la stanchezza fisiologica. Giunse l’alba, era splendida ma non me la godetti: avevo voglia di pisciare dieci minuti dopo la partenza, anche se non ebbi il coraggio di dirlo. Iniziava così il 2001, almeno per me: pensai al diploma che sarebbe arrivato a fine anno, a Y che partiva militare, all’università. Mi sembrava di poter prevedere il futuro ma mi sbagliavo: ci sarebbero stati il G8 a Genova e il 9/11 a NYC, due eventi di una portata mediatica troppo notevole e singolare per poter essere previsti con semplicità. Eppure il mondo, che ci piacesse o meno, aveva vissuto il suo anno zero soprattutto nel 2000: Napster aveva creato un nuovo concetto di network, dove i contenuti vengono offerti direttamente dall’utenza. Inoltre il 14 Settembre era cominciato il Grande Fratello e gli italiani avevano riscoperto la clava. Con i reality stavamo affermando non un presunto voyeurismo comune, ma un’innata passione per la cattività. Citando gli Smashing Pumpkins, nonostante la nostra rabbia, eravamo topi in gabbia.

«Può fermarsi?», chiesi quando mancavano meno di venti chilometri a destinazione: la mia vescica stava per cedere. La stavo trattenendo da oltre 100 km.
Non so cosa accadde nei pochi minuti in cui lasciai auto, non so di cosa si parlò, ma quando rientrai qualcosa era cambiato: la madre di Y aveva perso il sorriso, mentre il figlio era sveglio e guardava un punto imprecisato all’esterno del finestrino. Qualsiasi persona sana di mente, al mio posto, sarebbe scesa e si sarebbe fatta i restanti venti chilometri a piedi e sotto il gelo. Due erano gli argomenti tabù con la madre di Y: il padre di Y, e il futuro di Y. Signora Laura non era una di quelle madri divorziate che passano il tempo a raccontare come sia riuscita a crescere un figlio da sola; né era di quella avvezze a spalare merda sulla virilità e/o fedeltà dell’ex compagno; al contrario insisteva che non si parlasse mai male, o a sproposito, del padre del figlio. La questione legata al futuro di Y era invece più insidiosa: la madre era pronta a qualche sacrificio per mandarlo all’università, ma il figlio non era della stessa idea. La loro era la storia di una piccola famiglia che improvvisamente si era trovata indebitata: ergo, a problema risolto, avevano conservato un retaggio pessimista relativamente alle questioni economiche. I debiti in fondo sono come i denti, più sono profondi e più si fa fatica a dimenticarli.
«Dormi da noi?», mi chiese lei.
A questo avrei dovuto rispondere “no grazie, è giusto voi stiate soli e discutiate di qualsiasi cosa abbiate da discutere senza che ci sia io tra i coglioni ad inibirvi”. È altrettanto vero che da piccolo avrei potuto prendere lezioni di karate e imparare a difendermi: ma non è successo, così come non successe che lasciassi la giusta privacy a Y e madre. Così, una volta a casa, la madre era nervosa e Y lo era ancora di più. Ci chiudemmo in stanza e io, un poco per l’ora e un poco per abitudine, mi dispensai dal chiedere spiegazioni: il mio corpo sprizzava gioia di vivere come il cubetto del rottame di un’auto. Mi buttai sul materasso e nemmeno diedi la buonanotte. Mi stavo addormentando quando Y aprì bocca. Non parlò perché quel che aveva da dire lo covava dentro tempo, assolutamente, parlò perché era incazzato con la madre e voleva scaricare la frustrazione su di me. Lo fece per ferirmi deliberatamente? Credo di sì.
«Vorrei addormentarmi», iniziò, «pensando ai posti dove non voglio andare, alle persone che non voglio incontrare e alle cose che non voglio più fare».
«Poi chiudi gli occhi e vai a dormire?» chiesi. Stava parafrasando la prima strofa di Green Corn e io gli ero semplicemente andato dietro. Sarebbe finita così se lui non avesse aggiunto quel che stava per aggiungere: era un’accusa, una terribile accusa.

Continua

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Mi avete rotto il cazzo – Traccia 2

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Il mio paese era diviso in due parti, una alta e una bassa, separate tra loro da un dislivello di quasi cento metri. C’era una vecchia casa abbandonata, nella parte alta, con piccole porte e intonaco esterno scrostato; il tetto spiovente, con tegole scolorite o divelte dal tempo, si affacciava su un giardino di vegetazione ormai secca; sul retro i resti di un vecchio forno per quando ancora si faceva il pane in casa; sullo sfondo la vecchia e aspra montagna a ricordare che l’uomo non potesse costruire ovunque. Il camposanto si trovava invece nella parte bassa del paese, quella più moderna, isolato dal centro abitato da una stretta stradina circondata da due vigne ormai incolte. Durante il funerale di t cominciò a nevicare, a nevicare tanto. Mi affascinava la neve che non distingueva le tombe dei ricchi da quelle dei poveri, la neve che si poggiava dove trovava posto, indifferentemente. Anche le vigne vennero innevate, apparendo così meno abbandonate del solito. Ricordo il tetto spiovente della vecchia casa, ricordo che fosse coperto di bianco come quello delle altre costruzioni, e ricordo che l’unica differenza con queste fosse l’assenza di un camino fumante. In cuor mio, anche se magari non c’entrava nulla, associai quell’immagine a And Justice For All.
«Cade a pezzi», disse Y.
«Vedo», sorrisi malinconicamente, «tu che sei credente, hai pregato per t?»
«È un
segreto tra me e Dio», concluse, «cosa facciamo stasera?».
Quella sera avrei voluto collassare per risvegliarmi il giorno dopo perfettamente lobotomizzato. Non volevo passare un’altra notte a sognare t, n
é volevo partecipare ad altri incubi frustranti e disarmanti con lui protagonista: sognavo lui agonizzare e sua madre piangere; lo sognavo sul palco con noi, con il Jazz Fender color porpora; poi lo sognavo al bar, mentre si esaltava o bestemmiava giocando a Street Fighter II; lo sognavo non per malinconia ma per rimorso, ricordandomi la nostra ultima, e ormai frustrante, conversazione. Purtroppo non sempre ci si saluta in modo pacifico, perché i conflitti umani esistono, in particolare durante quel Can-can ormonale noto come adolescenza. La sola consolazione possibile è un bilancio complessivo del rapporto, distinguere cioè i momenti sereni da quelli di attrito sperando che i primi superino i secondi per quantità e intensità. t in fondo era un umano, e in quanto tale aveva difetti e vizi, nonché un’assoluta distanza da qualsiasi forma di pazienza prossima al concetto metafisico di santità. In sintesi era coglione tanto quanto noi e, per tale motivo, era un’utopia pretendere di non bisticciare mai. In ogni caso era ormai morto e sepolto, a differenza di Y che aspettava ancora una risposta riguardo il proseguo di quella giornata ammorbante. Era San Silvestro, l’occasione preposta per eccellenza ai bagordi, la notte in cui si esce sperando di scopare e non ubriacarsi, ma in cui si rientra ubriachi senza aver scopato.
«Io avrei voglia di non fare nulla», replicai, «ma se non esco mi ritrovo a casa di nonna a rispondere alle domande indiscrete delle mie zie».
«Mia madre scende a Cagliari per lavoro», propose, «ci sono i Lunapop».
«I Lunapop?», chiesi retoricamente, «vuoi davvero vedere i maledetti Lunapop?»
«Siamo messi
decisamente male stasera, vero?»
Risi e lo fece anche Y. Una settimana prima non avrei assistito a un concerto dei Lunapop nemmeno se
mi avesse garantito la certezza di fare poi sesso a tre con Luisa Corna e Manuela Arcuri; sia chiaro, intendo la Corna e la Arcuri del 2000, non quelle odierne. Ma in quel momento i Lunapop sembravano un’ottima occasione per prendere le distanze dal paese, paese che quel giorno puzzava, oltre che di vecchi ricordi, di morte e di cattività emotiva. A detta di Dostoevskij gli uomini si distinguono dal modo di ridere. Y aveva riso in modo sincero e determinato, come se volesse affermare il suo diritto umano alla felicità nonostante il recente lutto; io avevo riso in modo acre e istintivo, quasi non fossi pronto a farlo, in modo assolutamente sorprendente. Sembrava avessimo eluso la morte, anche se solo per un attimo. Un attimo, appunto, un attimo solo, prima che il mio sorriso scomparisse rapidamente. Avevo visualizzato mentalmente un’immagine terribile: vedevo t, seduto su una nuvola, che scuoteva la testa; era come infastidito dalla velocità con cui avevamo ripreso possesso della nostra spensieratezza. Mi sentii terribilmente in colpa, al limite dell’angoscia.
«Smettila!», gli intimai,
«siamo in lutto».
«Fottiti», replicò
Y, «posso fingere di non divertirmi, ma non voglio sentirmi in colpa se accade».
Segretamente, intimamente, il mio decennale ateismo sembra
va essersi arreso alla prima vera prova di indipendenza dal metafisico. L’emancipazione più complessa da raggiungere è quella legata alle nostre convinzioni radicate. Quando la tua infanzia è costantemente esposta a pregiudizi, bigottismo e superstizione, l’adolescenza diventa un momento di ribellione impulsiva: leggi tanto e riscrivi i parametri di tolleranza; ti crei una tua morale e lotti per l’emancipazione. Al liceo ti presentano Cartesio, e il Cogito Ergo Sum sembra aprirti una nuova prospettiva. 
È come se capissi qualcosa di te, almeno nelle sfumature più essenziali: cominci a ripetere che devi iniziare a pensare, perché più pensi e meno ti sottometti ai meccanismi sociali. È come se la tua testa viva una sorta di primavera dopo l’inverno del mommotti e del catechismo. Ogni confronto con gli adulti diventa una discussione adrenalinica. Ma il tuo subconscio è in quiete, pronto a colpirti sul più bello, pronto a rivoluzionare il tuo ateismo distillando lentamente superstizioni varie che per anni, appunto, ti sono state sottoposte. E che tu lo voglia o meno, cederai alle credenze del cazzo che ti ha ficcato in testa tua nonna quando eri ancora un bambino, anche se proverai a negarlo costantemente.

«Che programmi hai?», ribadì ancora Y, «vuoi passare i prossimi giorni o mesi a ripensare alla volta che tu e t siete quasi venuti alle mani? Aveva torto lui, torto marcio. Aveva torto come altre volte, e aveva torto perché in fin dei conti è sempre stato un merdoso opportunista viziato ed egocentrico. Era un egoista, perché solo un egoista muore a Natale. Noi ci dimenticheremo di lui, ma i suoi parenti? Sua madre credi che festeggerà nuovamente il Natale in futuro?»
Fra poco saranno sedici anni dalla morte di t. Sua sorella
oggi ha ventisette anni e non ha ricordi di lui che non siano legati ai malinconici racconti materni. È una ragazza alta e formosa, con capelli ricci tagliati corti, carnagione chiarissima ed efelidi diffuse: assomiglia al fratello quanto un cocker spaniel assomiglia a un coccodrillo. Ha avuto ragione Y, la madre di t non ha mai superato la morte del figlio e di fatto ha trasformato il Natale in una ricorrenza tabù. Ma per tutti gli altri, compresi noi, è arrivato, a volte prima, a volte dopo, il momento per associare nuovamente la settimana che da Santo Stefano porta al Capodanno semplicemente al cenone di San Silvestro. Il nostro paesino, quella notte, avrebbe festeggiato nonostante il lutto e nonostante il gelo. Erano state cancellate le manifestazioni pubbliche ma non quelle private. In fondo era giusto così, perché se per la madre era morto un figlio, e se per noi era morto un amico, per tutti gli altri era semplicemente morto un ragazzo. In piazza c’erano persone che parlavano tra loro in modo sereno, l’orologio della chiesa rintoccava le 17. Ebbi un flash della mia probabile nottata, parcheggiato a un angolo della tavolata a bere compulsivamente, in solitudine: bere per bere, tanto valeva farlo in buona compagnia.
«Vada per i Lunapop», conclusi dunque.
E l’alcol fu l’unica certezza indissolubile di quel maledetto San Silvestro: partimmo da casa promettendoci di bere tanto e rientrammo completamente ubriachi. Ma stavamo per fare qualcosa che avrebbe messo fine a un’amicizia che credevamo indissolubile.

…continua

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Mi avete rotto il cazzo – Traccia 1

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Mancavano pochi giorni alla notte di San Silvestro del 2000. Non c’era la paura del Millennium Bug, come l’anno precedente, né quella della fine del mondo, come capitava nel Medioevo. Eravamo maggiorenni, ma non ancora ventenni. Frequentavamo l’ultimo anno di liceo e a nessuno di noi dispiaceva dire “addio” a Latino e Filosofia. Quando si parla delle scuole superiori, quando se ne parla al passato, si dipinge un periodo fondamentalmente romantico ed emotivamente intenso; ma a noi, al contrario, non succedeva mai nulla, e andare a scuola non era diverso da andare andare a messa: dovevi restare seduto in silenzio e credere alla sola realtà che ti veniva propinata. Ci sono tante analogie tra l’insegnamento liceale e la catechesi: il bisogno di ricostruire l’antropologia sin dalla genesi; l’eccessivo dogmatismo legato ai contenuti; la presunta infallibilità di chi redige i piani di studi; l’insegnante ridotto a burattino parlante di un determinato establishment culturale; l’assenza di fiducia nello spirito critico dell’utenza. L’autonomia degli insegnanti è profondamente limitata, così come è limitata quella dei parroci: possono variare vagamente la forma, ma guai a variare i contenuti.
«Che fai?»
«Aspetto che i maiali imparino a parlare».
«Non hai fretta dunque».
«Ne ho mai avuta?»
Lui era Y.

Y aspettava che i maiali imparassero a parlare, e lo aspettava sin da quando era bambino. Non era matto, era solo nostalgico: per nostalgia non bestemmiava, perché era stato chierichetto; per nostalgia fumava Alfa, perché aveva cominciato con quelle; per nostalgia studiava tanto, perché da piccolo sognava di fare l’astronauta. Non era però un tipo malinconico, era una sorta di ombra flemmatica che indossava la felpa dei Buzzcocks e i jeans strappati. Era un chitarrista vero, era incapace di sfogare le proprie emozioni se non attraverso la musica. Presumo che se non si fosse dato alla chitarra, probabilmente si sarebbe cosparso di benzina e arso vivo come Thích Quảng Đức.
«Cosa è successo?»
«È arrivata la
lettera», sorrise amaramente frugando nelle tasche del parka.
«E quando?»
«È indifferente», poggiò una sigaretta sulle labbra, «hai da accendere?»
Ecco un dettaglio notevole di Y: era incompleto. Y era un fumatore che girava senza accendino; Y era un chitarrista che non aveva mai il plettro; Y era un buon cristiano che non si faceva più vedere in chiesa. Era bello. Era di una bellezza incompleta. Aveva un bel viso, con lineamenti armonici, labbra carnose e occhi dal taglio vagamente asiatico; ma aveva anche uno strano neo sulla punta del naso, una roba che non potevi non osservare e che ti distraeva dai suoi occhi chiari.
Era una versione allampanata di Tom Yorke, molto ambiguo, anche nel modo di sorridere, ma del resto, come diceva Herman Melville, il sorriso è il veicolo dell’ambiguità.
«Tieni»,
dissi passandogli l’accendino e sollevandomi in piedi.
Non mi piaceva stargli vicino quando stava in que
lla maniera. Aveva diverse cicatrici nella parte interna dell’avambraccio, figlie dell’emulazione di Sid Vicious e di un autolesionismo adolescenziale che all’epoca, paradossalmente, a noi sembrava più che normale. A parte ciò, lo ritenevo un tipo pericoloso, decisamente aggressivo, anche se, nonostante avesse pestato a sangue tanti coetanei, non mi aveva mai aggredito in vita sua. Era una sorta di ordigno inesploso, e credo che nessuna metafora possa essere più adatta per definirlo. Y era un cazzo di pacifista, o così si definiva, che per forza di cose si era ritrovato a dir sì all’esercito: tre anni di ferma, con tanto di stipendio, contributi pagati e tutto il resto. Quando lo disse ricevette parecchi complimenti, soprattutto da persone che non lo conoscevano bene, da compaesani che ignoravano quanto la sua non fosse stata una scelta.
«Non sei obbligato a dirmi che ti dispiace», fece notare.
«Non avevo infatti alcuna intenzione di farlo», conclusi sorridendogli.
«A che ore arrivano gli altri?»
«Al solito orario».
“Gli altri” erano Z e t, rispettivamente Basso e Batteria della band. A proposito, io sono X, il cantante. A questo punto presumo non vi stupisca apprendere che ci facevamo chiamare Le Coordinate Cartesiane. Lo so, era un nome davvero del cazzo, ma non a caso siamo stati una band del cazzo. Si provava due volte a settimana, chiusi in uno stanzone alto che anni prima era stato un mattatoio per ovini. L’acustica di quel luogo era terrificante, con i muri in blocchi di cemento cavi che creavano distorsioni e riverberi infiniti. Non a caso, a prove finite, era abbastanza comune tornarsene a casa con una fastidiosa emicrania.
«Tua madre lo sa?», chiesi infine.
«No», concluse in modo fermo, «e non deve saperlo», mi fissò, «chiaro?»
«Chiaro».
La lingua di Y venne metaforicamente mozzata dal fastidioso rumore dello scarico montato sul
Typhoon di Z. Y non parlava mai con gli altri, né parlava di fronte a loro, non che ci fosse chissà cosa da dire. t era una persona altrettanto silenziosa, anche se poi con le bacchette in mano ci dava sufficientemente dentro. Z era invece fin troppo esuberante per essere un bassista. Io? Gli altri dicevano che fossi troppo borghese per fare il cantante punk, e troppo ignorante e grossolano per scrivere liriche new wave o new romantic. A pensarci bene, ero affascinato soprattutto dalle band della West Bay californiana, cioè da personaggi nati e cresciuti con la tavola da surf o lo skateboard sotto i piedi, mentre io perdevo l’equilibrio anche in bicicletta.
«t?», chiesi quando ci rendemmo conto che Z fosse solo.
«Come?», si tolse il casco, osservandoci preoccupato, «non sapete nulla?»
«Di cosa?»
Z ci guardò come se fosse al cospetto di due alieni. Era turbato, decisamente turbato, aveva il volto scavato e lo sguardo stanco. Era successo qualcosa, questo era ovvio e da come si comportava era stato qualcosa di grosso.
«Sono
venuto in scooter perché al telefono non riescono a rintracciarvi», concluse, mentre i suoi occhi si stavano arrossando, stava per piangere.

Tempo pochi secondi e sarebbe venuto da piangere anche a noi.

continua…

Anche ai coprofagi piace il bacon.

L’Olanda? In giornate come oggi ha un aspetto devastante. Ha quella faccia da ciccione appena sveglio, con gli occhi spiritati di chi mangerebbe anche merda se il cuoco la friggesse con il bacon. Che poi solo i ciccioni associano il lemma “bacon” alla pancetta; noi altri quando si parla di Bacon, pensiamo a Bacone, Francis Bacon, il filosofo inglese, quello che disse che la Verità è figlia del tempo. È vero in fondo, molte volte è sufficiente aspettare per constatare come davvero vadano le cose. In cucina il tempo è sovrano, sempre: se hai fretta, il cibo esce crudo; se sei lento, il cibo esce scotto o bruciato. Ma quegli stronzi la fuori mica lo sanno. Non pensano certo a Bacone quando si affollano sul vassoio dei croissant caldi, e sicuramente non apprezzano che siano cotti a puntino. E noi qui, pazienti e gentili, a farci insultare da questo ginepraio di pseudotossici invasati che scelgono l’Olanda per le prostitute e i cofè-shop. È tutto qui? Siamo solo puttane e droga? Per gli italiani sì. Vengono a trovarci solo per quello, perché sono troppo stupidi per accorgersi davvero di quanto sia meravigliosa questa terra. Ed è questo che li fotte, questo loro non rendersi mai conto del contesto in cui svolgono le loro attività preferite: litigare e protestare in modo chiassoso. Certo, non sono tutti così, ma le eccezioni sono talmente poche da diventare irrilevanti.

Lui è un’eccezione. Di chi parlo? Del tizio seduto al tavolo centrale, quello con i capelli rasati e con quella strana escoriazione al polso sinistro, escoriazione che nessuno probabilmente noterà. Lui è sempre silenzioso, fa la fila, non protesta ed è educato. Brav’uomo? Non saprei. Molti miei dipendenti sono suoi clienti e sinceramente credo che un pusher educato resti comunque un pericolo. Anche quell’altra è educata. Quella tizia lì, la bionda. Quella che sta entrando nella sala e sta raggiungendo il pusher al tavolo. La loro storia è interessante e ve la racconterei se la conoscessi o se avessi tempo o se avessi voglia. Ma mi chiamano in cucina, mi chiamano perché il latte è quasi pronto e non possiamo certo portarlo in sala senza prima sputarci dentro. Del resto agli italiani non piace che non si sputi nel cibo, perché non si sentirebbero a casa.

Dimenticavo: se vi interessa la storia del pusher e della bionda, la trovate qui. Gratis. Boh, approfittatene. A voi italiani piace la roba gratis no? Alla prossima.

  • Klepsydra è scritto a quattro mani con B. Polare

 
In alternativa Klepsydra lo trovate anche su Le Storie di B al seguente link:
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