Il presunto omicidio/suicidio di Mister Smith

Si alzò dalla poltrona e si versò due dita di bourbon. Non avrebbe dovuto bere a stomaco vuoto, ma non aveva fame. In realtà avrebbe dovuto smettere con molte altre cose e avere maggiore cura di sé stessa, ma non quella domenica sera. E poi il giorno preposto al “domani smetto” è il lunedì.

L’ultima volta che aveva scopato era stato con un ragazzo di due anni più giovane, per sbaglio. Lo avevano fatto nei bagni del pub, senza guardarsi negli occhi. «Ci voleva proprio» si dissero, un poco come chi è tornato da una corsa nel parco. Per il resto erano d’accordo sulla storia da raccontarsi per fugare i reciproci sensi di colpa: la svuotapalle di turno.

Ma ora era annoiata, infastidita. Il marito avrebbe voluto abbracciarla teneramente, perché in fin dei conti i mariti servono anche a quello oltre che a rovinare l’esistenza delle loro ex fidanzate, ma lei non dava l’impressione di voler essere toccata. Voleva solo un’emicrania. Si stordiva con l’alcol, in modo da avere una buona scusa per avere quella faccia e per evitare il sesso coniugale. Nessuno capiva quanto oramai lo schifasse.

Gerry Scotti vomitava buonismo. Il televisore era acceso, sintonizzato su Canale 5, su uno di quei programmi dove in teoria dovrebbero partecipare concorrenti provenienti da tutta l’Italia, ma 2 su 3 hanno l’accento lombardo. Paradossi della telediffusione. Le immagini arrivavano dappertutto, ma non i treni. E la bottiglia dell’alcol era proprio nel mobile del televisore, sotto, dietro una vetrina. Per sbronzarsi bisognava passare per lo zio Gerry. «Quanto odio quando si definisce Lo zio Gerry» sibilò lei.

Tornò verso il divano con il bicchiere pieno. Si accomodò e diede una sorsata generosa che le fece fare una smorfia. Si guardò la mano libera e si rese conto che avesse bisogno di una manicure, o di altro alcol. Aveva bisogno di un altro cazzo forse, oppure di un buon pianto, oppure che quello stronzo alla Tv la smettesse di ripetere “grazie a Dio” per ogni cazzata. «Che si fotta Dio» sancì bevendo ancora.

Il marito la fissò. Si sentì inutile e fuori luogo. Si sentì anzi usato. Se abitava in quella casa, era perché un giorno sarebbe servito un qualcuno che organizzasse un funerale. Era una sorta di becchino, anche emotivamente. Era colui che aveva seppellito tutte le speranze della moglie. O forse non era proprio così, ma era come lei lo raccontava. Alla fine però lui si ricordò di una vecchia promessa.
«Ti prenderai cura di me, cercherai di farmi star meglio?»
«Sempre!» le aveva risposto.

Perciò le mise le mani attorno al collo. Lo fece con profondo amore, conscio che la moglie non desiderasse altro che abbandonare quella valle di lacrime. Del resto era una depressa alcolizzata, oltre che un’adultera frigida. Ed era anche blasfema. Sì, ricordava di averla sentita bestemmiare, ne era certo, o quasi.

Ok, forse anche lui aveva bevuto un bicchiere di bourbon; facciamo due; diciamo tre, se proprio vogliamo essere onesti. A stomaco vuoto, ovviamente. Dunque non era lucidissimo quella sera… ma aveva sentito la moglie bestemmiare, forse. Ed era certo che l’avesse tradito. Anche se, a pensarci bene, quel «ci voleva» lo pronunciava anche lui. Capita di mentirsi, no? Se poi ci si mette anche lo zio Gerry, a qualcuno sale il crimine. Lo zio Gerry che li teneva compagnie da tante settimane, ma che non avrebbe potuto testimoniare su chi fosse davvero alcolizzato tra i due.

Forse non le aveva fatto un favore ad ucciderla… Per fortuna abitavano al settimo piano, perciò «volare, uooooooh!»

Splat!

Tutta colpa di Gerry Scotti!

La vastità del prato che me ne frega.

Il giorno scopre la notte solo perché glielo raccontiamo con le nostre fotografie. Diamo dei nomi al nostro stupore, come “tramonto”, “alba”, “panorama”, anche se in verità viviamo tutto ciò senza proferir verbo, a bocca spalancata.
Ed è questo il bello.
Al nostro risveglio, i nostri occhi ignoranti si fidano della superstizione dei colori, e vediamo arancio ciò che magari è rosso, un poco per questioni ottiche e irradianti, e un po’ perché sbagliare ci fa ancora sentire ingenui. Per questo ci avviciniamo alla grande distese di fiori, sia quelle profumate, sia quelle che puzzano di stagno, per ricordarci di quanto era bello, da bambini, immergerci là dentro, quando chiamava “felicità” e “libertà” il semplice sgranchirci le gambe in mezzo alle margherite. Certo, forse era meglio da grandi, da adolescenti, quando i fiori abbiamo iniziato a fumarceli. Ma possiamo anche fare le due cose assieme, cioè cercarci un bel prato e drogarci serenamente.
Ma sì, buona domenica e porco dio!

Love will tears us apart… again!

Si erano conosciuti in mare, come in un racconto vittoriano. Avevano saltato i sottintesi e la retorica, abbracciandosi quasi subito. Nessun complimento esplicito, salvo il cercarsi in continuazione con lo sguardo. Desiderarsi con un sordido sorriso. In acqua nulla resta immobile, ma tutto galleggia. Così il loro affetto. Erano giovani, ma non abbastanza a confondere la realtà con i romanzi rosa. Per dirla con i linea 77, la vita a volte sa di fragola, ma molto spesso è merda. Erano come un demo-tape, tanta attitudine e pochi fronzoli. Un giorno il vento cessò. Lui restò lì, a fissare il mare, lei si allontanò, per tornare in città. Chilometri di promesse rese importuali dalla consapevolezza, in quel momento precisa, che un amore puro si stesse trasformando in cieco rancore. Le liti, i silenzi, milioni di ragioni per privare di qualsiasi epiteto quello che era cominciato come “meraviglioso” e che ora diveniva “anonimo”. Sì, perché quando ci si vuole bene non ci si chiama per nome, ma ci si guarda; e certamente non si perde tempo a dare definizioni, perché la bocca è impegnata a baciare, leccare, succhiare. Perciò dimenticarono il nome della persona di cui non sarebbero mai riusciti a dimenticare lo sguardo addolorato. Fu una consolazione rendersi conto che l’amore li avrebbe devastati ancora in futuro…

Alcolismo serale – 2

Le persone non si spaventano facilmente. Non quelle che conosco io almeno. C’è una guerra là fuori. La stanno perdendo tutti, ma combattono ugualmente. Per questo è stupido trascorrere il tempo che ci resta tra un bombardamento e l’altro a lamentarci dei bombardamenti. Ci bombarderanno comunque. Non conviene allora leggere? Qualcosa di Hemingway magari, tipo Il vecchio e il mare.

Immagino di morire a quel modo. Stai leggendo un libro e tra pagina 37 e 38 ti spegni. Accade senza soffrire. Ti addormenti, nulla di più. Credo sia il modo più onesto di andarsene. Una sorta di decapitazione del cordoglio. Invece è sempre tragico. Va come non dovrebbe. Guarisci dal cancro, ma qualcuno ti punta la pistola alla testa e preme il grilletto. Bang Bang!

Così tu arrivi chissà dove, e incontri chissà chi. Magari viene messa in discussione la tua condotta terrena, magari no. Magari ricevi addirittura delle scuse, tipo “sai, non avresti dovuto nascere in Medio Oriente”, o semplicemente “mi dispiace di averti fatto crescere vicino a una stronza che si sveglia e ascolta gli 883”. Lo so, lo so, ho un’idea di pietà divina molto differente da quella cattolica.

Secondo me il vostro dio si incazza quando vi sente aprire bocca e sparare certe cazzate, tipo quella che l’aborto è un femminicidio.

God Save the Queen

Gli amici? Erano i nostri accordi. C’era sintonia tra noi, e non solo metaforica. Eravamo quelli non abbastanza fichi per stare con gli altri che avevano il motorino; anche perché non avevamo il motorino. Ma avevamo la chitarra, e sapevamo suonare tutta Salvation, dei Rancid. Che nessuno ricorda. Ma la ricordiamo noi, ed è ciò che conta. Gli amici? quelli che condividono un ricordo che nessun altro condividerebbe. Nel nostro caso gli amici erano coraggiosi, oltre che stupidi. Come quando si andava a suonare in luoghi dimenticati da Dio, e il pubblico era composto solo da vecchi. E noi sul palco a suonare punk. 70 enni che ci guardavano come alieni mentre suonavamo God Save The Queen. E i nostri amici là sotto. Non erano mai più di 3-4. Conoscevano le canzoni. E quando stavi al microfono, cercavi i loro occhi. Volevi sincerarti che stessero cantando. Gli amici? quelli che sai che cantano anche quando non li guardi. Poi sono cresciuti. E ora che ti incontrano, con moglie e figlio, la terza o quarta domanda è sempre la stessa: “stai ancora suonando?”. Perché hanno sempre qualcosa da proporti. Una cover band degli skunk anansie, oppure “facciamo Ben Harper”. Sì, troviamo il tempo. Gli amici? Quelli che promettono di trovare il tempo, ma non ci riescono mai. Eppure ci provano, quello sempre.

Risvegli Narcotici – Colpevoli

Non tutti hanno gli stessi tempi. Per circostanze o propensione naturale, ci distinguiamo tra i Turbo e i Diesel. Che poi odio la metafora legata ai motori, perché la usava una mia docente del liceo, la quale mi stava molto sul cazzo; anche il liceo mi stava molto sul cazzo. Ok, trovate qualcosa che non stia sul cazzo a me e verrete premiati.

Comunque abbiamo tempi diversi. Ci sono persone che capiscono subito le regole del gioco e le assecondano. Sono vincitori, anche se è una definizione cruda. Sono quelli che prendono il bottino grande e lo divorano osservando la frustrazione degli avversari. E qui nasce l’equivoco: non tutti sono consapevoli di essere in gara.

Dal mio punto di vista anche i perdenti conoscono le regole del gioco e anche loro le assecondando. Semplicemente lo fanno in modo differente. Stare nel mucchio è facile, perché nessuno si rende conto dei quinti o dei penultimi. Sono lì, che ci provano e non riescono, fine, ma godono del privilegio dell’anonimato. L’ultimo no. Lo vedi, lo indichi, lo irridi.

Eppure è una scelta. L’umiliazione è tale solo se rispetti le regole del sistema, solo se accetti la gara eterna e la competizione sistematica. Non lo è più se decidi che devi fare ciò che ti piace, e che con i tuoi risultati gli altri possano pulirsi il culo. Così la gara diventa carta igienica. E tu puoi defecare sulle ambizioni altrui privandole della giusta gloria. Per anche far sorgere il dubbio al vincitore di aver gareggiato da solo. Oppure puoi smetterla di drogarti alle 7:32 del mattino.

Ma la droga è buona e fa bene.

Risvegli narcotici – Vecchi dentro.

Ho ancora in bocca il sapore del caffè. Ho dei documenti da consegnare entro due settimane; devo fare i biglietti aerei per un appuntamento importante; Venerdì devo occuparmi di questioni legate al fisco; dovrei andare a pagare due bollette. Insomma, ho un botto di cose da fare. Se ne ho voglia? Conoscete qualcuno che ha voglia di svolgere le proprie commissioni? In caso di risposta positiva presentatemelo.

Da quando non ho più i gatti ho cominciato a sviluppare una sorta di allergia al silenzio. Quando hai animali, lo spazio è inevitabilmente occupato. Se non fanno versi, sporcano; se non sporcano, dormono dove non dovrebbero dormire; se non dormono, fanno versi. Diciamo che riempiono le giornate. E alla fine occuparsi di loro ti responsabilizza. Credo sia tipo avere figli, solo che non devi spendere un sacco di soldi in pannolini o dvd dei Teletubbies. Sì, si denota che non sappia davvero un cazzo sui bambini. (ci va il congiuntivo?)

Nelle mie passeggiate mattutine, quelle da vecchio dentro, vedo spesso come si risvegliano le altre famiglie. Raramente provo invidia. Che scopino o inizino la giornata con il telegiornale regionale, non importa, perché anche io potrei farlo. Invidio però quelli che aprono la finestra e fumano. E non perché voglia fumare, ma perché vedo la soddisfazione nei loro occhi quando fanno il primo tiro. Fumare appena svegli, con i polmoni tenuti a bada da uno di sonno, è una gigantesca cazzata! Non è salutare. Eppure è pura soddisfazione, 100 % orgasmica.

Credo sia questo il libero arbitrio, la scelta di farci del male consapevolmente. Dio benedica le droghe e ovviamente anche l’amore; ma soprattutto le droghe.

 

Le dimensioni contano – Parte 51 – Finale

Oggi è il 16 Settembre 1987. In questo momento sono una paziente di sette anni ricoverata al reparto di ortopedia del Policlinico Santissima Annunziata di Sassari. Sono la figlia di Anna, un’affascinante trentenne sposata con un bellissimo infermiere biondo, mio papà, l’uomo più bello del pianeta.
Mamma e papà si amano tanto, anche se a volte litigano. In genere causa della lite è mio nonno, il dottor Lafitte, un medico belga che continua a definire gli infermieri come “dottori mancati”. In realtà mia madre litiga anche con mia nonna, che spesso si dimentica di badare a me quando dovrebbe. Io però voglio bene a tutti, anche se per nessun parente nutro l’affetto che provo per Sonia.
Sonia è una rompiscatole prepotente, saccente, opportunista e talvolta bugiarda. Ma anche io sono una rompiscatole prepotente, saccente, opportunista e talvolta bugiarda. Sonia è la mia migliore amica, ma anche la mia nemesi. Passiamo il tempo a bisticciare, ma siamo inseparabili. Per questo motivo Sonia è l’unica compagna di classe a cui permetto di farmi visita.
«Come stai oggi?» mi chiede sedendosi sul bordo del letto.
Non le rispondo. Purtroppo sono ricoverata in ospedale, perché una settimana fa mi è successa una bruttissima cosa. Ero a Sorso a casa dei nonni, giocavo nell’aia con mia nonna. Quando lei è entrata in casa per rispondere a una telefonata, io mi sono precipitata nel granaio, perché volevo usare la motosega. In passato ho visto tante volte come si avvia quell’affare, ma senza rendermi mai conto che nessuno poggia il piede sulla lama prima di tirare il cordino dell’accensione.
Così il motore della motosega è partito, e la lama ha cominciato a ruotare, maciullandomi una gamba.
Tra una settimana partirò per Londra, dove alcuni super-medici amici di mio nonno si occuperanno di me. Ovviamente qualsiasi operazione e cura a cui verrò sottoposta, compresa la più innovativa e rivoluzionaria, non mi restituirà comunque l’arto. Dunque vivrò il resto della mia vita senza una gamba.
«Quando torni a scuola ci sediamo vicine», afferma ancora Sonia, sperando che le rivolga la parola.
Mi volto e la guardo. Non sorride, anche se si sforza di farlo. «Hai perso un dente!» osservo aspramente, sperando di indispettirla. «Sembri la vecchia di Biancaneve»
«Sì!» conferma lei, per nulla scalfita dal mio tono ostile. «Ma comunque ricresce, e inoltre è anche passata la fatina dei dentini», aggiunge con invidiabile entusiasmo. «Mi ha lasciato dei soldi sotto il cuscino».
Sbuffo. «Esiste anche la fatina delle gambe?»
Sonia non risponde. «Abbiamo un nuovo vicino di casa», racconta invece. «Si chiama Marco e…»
«E chi se ne frega?»
«Era così per dire», sorride comunque. «Ora vado, ho pallamano alle quattro».
«Sì, vattene, e non tornare più».
«Ciao», mi saluta baciandomi la fronte.
Non mi ha mai baciata in passato. Mi ha morso fino a farmi sanguinare, mi ha sputato contro saliva e catarro, ma non mi ha mai dato un bacio.
Forse avrei preferito uno sputo e un morso.
Ma questa è la mia vita, la mia nuova vita. Nel mio futuro non ci saranno partite di pallamano, corse nei prati o semplici calci a una coetanea che mi sta sulle ovaie; né ci saranno fughe nel cuore della notte in adolescenza, quando mia madre mi riterrà ancora troppo piccola per star fuori la sera. Il primo bacio lo darò a qualcuno che non riterrà imbarazzante frequentare una ragazza con un arto artificiale.
Probabilmente ascolterò e sopporterò gente in perfetta salute che mi spiegherà che la disabilità non sia certo un limite per fare ciò che mi rende felice. Certo, ci sarà anche chi mi offrirà un lavoro in nome dell’integrazione e delle pari opportunità. Magari diventerò un’atleta paralimpica o qualcosa di simile. O forse no. Potrei suicidarmi a quindici anni dopo aver scoperto che Marco Masini ha fatto una cover in italiano di Nothing Else Matters.
Però mi piace pensare che esista un universo parallelo in cui qualcuno mi ha tirato via prima di accendere la motosega, un universo in cui ho ancora due gambe e sono sul campo di pallamano a fare a botte con Sonia e le altre mie coetanee, un universo in cui magari Marco Masini è un promettente tennista che in futuro si dispenserà da fare il cantante o scrivere canzoni.
Passa un’ora, che trascorro a guardare passivamente Bim Bum Bam.
«Ti fa male?» mi chiede un bambino grasso che è appena entrato nella mia stanza.
«Che domanda stupida. Come può farmi male qualcosa che non ho più?»
Mi fissa imbarazzato. «A me hanno tolto l’appendice», mi informa con candore, come se fossimo nella stessa barca. «Ma mi fa comunque male e…»
«E chi se ne frega?»
Lo guardo un attimo. Deve essere più grande di me, perché è più alto di almeno venti centimetri. È biondo, ha gli occhi chiari e le labbra carnose. Sembra il figlio di John Candy.
«Io sono Gabriele», dice porgendomi la mano. «Tu come ti chiami?»
«Valeria», sussurro senza dargli la mano. «Ora vattene».
Ma il bambino biondo non ha intenzione di lasciarmi sola. Forse in un altro universo vorrebbe giocare con una bimba che ha entrambe le gambe. Magari in un altro universo la sua appendice non si ulcera. Ma in questo universo sceglie di stare con me.

But I don’t want somebody
Who’s loving everybody
I need a shy guy
He’s the kinda guy who’ll only be mine

Shy Guy – Diane King

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Le dimensioni contano – Parte 50

Luce era intelligente e acuta. Ci vollero dunque pochi minuti per spiegarle che avrebbe trascorso i successivi trent’anni a fare dentro e fuori da un universo all’altro. Non fu semplice per me affrontare quel discorso, perché più parlavo e più mi rendevo conto che mia figlia fosse probabilmente destinata alle stesse sofferenze che avevo patito io. Ma era anche una situazione che non potevo evitare.
«Ma papà?» chiese infine Luce. «Perché qui non viviamo con papà?»
Sorrisi. «Perché non so nemmeno chi sia l’uomo che chiami “papà”».
Mia figlia tacque per alcuni secondi. «Cerchiamolo su Facebook», propose.
Era un’ottima idea. Luce prese il mio Samsung S8 e cercò suo padre sul più celebre tra i social network. Trovò il profilo in pochissimi secondi, ma non fu un bene per lei: Gabriele era felicemente sposato con Sonia e avevano un figlio.
«Come è possibile?» chiese mia figlia, scettica e incredula. «Voi vi amate tanto», rivelò agitata. «E perché papà è così magro e muscoloso? Dovrebbe essere un ciccione burroso, lo è sempre stato, da quando vi conoscete».
Sollevai le spalle, non sapevo come risponderle. Poi mi resi conto di un fatto che avevo ignorato per anni. La prima volta che mi ero svegliata nella cuspide, più di vent’anni prima, ero fresca di rottura di fidanzamento da un mio coetaneo sovrappeso. [qui il capitolo dove Gabriele è grasso] «Era sempre lui», sussurrai dunque sottovoce. «Ci sono i nonni nella dimensione da cui vieni tu?» chiesi quindi a mia figlia.
«Tutti, tranne nonna Anna».
«Chi è tuo nonno materno?»
Luce mi fissò perplessa. «È nonno Marco», affermò sorpresa. «Qui chi è?»
Avrei dovuto rivelarle che in realtà Marco non era suo nonno, ma semplicemente il compagno di sua nonna, cioè mia madre. Avrei dovuto raccontarle dell’infermiere biondo, l’uomo che si era rifiutato di far parte della nostra vita. Ma a che pro? Tanto mia figlia lo avrebbe comunque scoperto da sola prima o poi, e amaramente. Volevo lasciarle un briciolo di serenità, anche se sapevo non sarebbe durata a lungo. E non mi interessava se, per via delle mie bugie e omissioni, in futuro non si sarebbe più fidata di me, perché avrei comunque anche tragicamente scoperto di non potersi fidare di sé stessa. Luce era destinata a galleggiare nella stessa identica e putrida merda interdimensionale in cui ero stata immersa io alla sua età.
«Anche qui tuo nonno è Marco, mio padre», le mentii infine. «Volevo solo verificare che non mi stessi imbrogliando».
«E perché mai dovrei imbrogliarti?»
Cambiai argomento. «Preparati. Andiamo a farci una scampagnata».
Sorrise. «Nell’altro universo odi le scampagnate. Detesti stare all’aperto in generale, perché le persone prima o poi si accorgono che hai una protesi sotto il ginocchio destro».
«In questo universo non ho acceso quella maledetta motosega», le ricordai. «Poter cambiare le cose è uno dei migliori vantaggi della nostra esistenza inter-dimensionale».
«Nell’altro universo ho l’iPhone», osò allora mia figlia.
Risi. «E credi che me la beva?» domandai sarcastica. «Ci hai provato, ragazza».

Pochi giorni dopo mi venne il ciclo. Al risveglio nel nuovo universo Luce era nuovamente scomparsa. Al suo posto c’era Michele, mio figlio dodicenne, ed ero nuovamente sposata con Gianni, aka Mr grandepancia-piccolocazzo. Fu sconvolgente, ma mai quanto leggere il referto della mia ultima visita ginecologica: nonostante i trentasei, ero entrata prematuramente in menopausa. Ciò significava che non ci sarebbero stati altri viaggi inter-dimensionali, e che non avrei mai più visto mia figlia.
«Mi dispiace», disse Marco, il mio ex patrigno, quando lo raggiunsi alla facoltà di Ingegneria di Cagliari, dove insegnava fisica.
«Dispiace anche a me», ammisi. «Ma forse è meglio così. Ho davanti a me tanti anni di normalità», affermai sconsolata.
Mi sorrise. «Credo dipenda dalla compensazione», ipotizzò. «Le tue ovaie sono state sottoposte a…»
«Taci, Einstein!» lo interruppi. «Se la teoria della compensazione fosse vera, tu saresti morto da tanto. E sicuramente Sonia, Ivan, Carolina e tanti altri non sarebbero ricomparsi l’uno dopo l’altro», gli dissi. «Non c’è nessuna compensazione. È solo caos! Dimentica tutte quelle robe meta-scientifiche sull’effetto farfalla, i paradossi, i paradigmi filosofici, o qualsiasi altra stronzata che gli scienziati si inventano per descrivere le cose non per come sono ma come vorrebbero che fossero. Credimi, è solo un gigantesco minestrone cosmico, nulla di più».
«Bizzarro», commento Marco. «Tua madre mi disse qualcosa di simile, molti anni fa», aggiunse malinconico. «Solo non capisco una cosa. Perché sei venuta da me se hai queste convinzioni?»
La risposta era semplice: volevo ficcargli il bisturi nello scroto. Non avendo più il ciclo sapevo che il mio gesto sarebbe quasi certamente stato definitivo, e finalmente potevo trovare conforto per essere stata stuprata. Non mi interessava se Marco in quella dimensione era adorabile e se mai e poi mai mi avrebbe messo le mani addosso. Mi sentivo comunque in diritto di vendicarmi di ciò che avevo subito. E non era certo colpa mia se le circostanze punivano il Marco sbagliato, perché il vero colpevole era il caos.

Lunedì il finale.

Le dimensioni contano – Parte 49

Carolina era viva. Ciò mi sconvolse, ma mi fece anche piacere. Malauguratamente non eravamo amiche e anzi, l’astio reciproco era tale che sua figlia dava della “bastarda” alla mia. Era un precedente che non doveva ripetersi.
«Jessica dovrebbe scusarsi», insinuai.
Ma Carolina scosse il capo. «Sicuramente tua figlia ha capito male», disse con tono di sfida. «Anche se non è da escludere che qualcuno la chiami a quella maniera», aggiunse con astio. «In fondo è quel che è, una figlia di NN. O sbaglio, Valeria?»
Chiusi gli occhi per contare fino a dieci, ma mi fermai a tre. «Tuo padre scopava con mia madre», dissi a voce alta, senza essere certa che fosse effettivamente così in quell’universo. «Se vuoi ti descrivo la forma del suo cazzo, così puoi controllare», aggiunsi con livore. «Quindi, prima di farmi sentire una puttana solo perché cresco mia figlia da sola, chiediti se la tua vecchia è tanto frigida da costringere tuo babbo a tradirla».
«Mia madre è morta!» mi “ricordò” Carolina. «Eravamo alle medie, ed è stato terribile», continuò. «Come puoi dire queste cattiverie?» chiese in lacrime colei che aveva insegnato alla figlia di sei anni a dare della “bastarda” a una sua coetanea.
Max sfruttò il fischietto per richiamare le altre bambine, incuriosite e in parte inquietate dalla scena. Qualcuna era anzi prossima alle lacrime «Mettetevi lì in cerchio, dietro la linea», ordinò perentorio indicando la parte opposta del campo da volley. «Voi no!» disse quindi rivolgendosi a mia figlia e Jessica, quando le vide raggiungere le altre. «Per voi qui non c’è più posto» aggiunse soprattutto a beneficio di noi madri.
Jessica e Carolina protestarono in maniera colorita. Luce invece recuperò la giacca della tuta e mi chiese di portarla a casa. La accontentai.
Mia figlia imparò una lezione importante dalla faccenda del minivolley: anche se era stata provocata, l’aggressività era controproducente. Di conseguenza avrebbe cercato di essere meno impulsiva in seguito. Tuttavia restò comunque una grandissima scassapalle petulante.
«Sei un cane!» mi disse un pomeriggio, pochi giorni più tardi.
La fissai. «Perché mai dovrei essere un cane».
«Perché non ti piacciono i gatti».
Voleva un felino, e da qualche giorno continuava ad insistere perché ne prendessi uno al negozio di animali. Personalmente non avevo nulla contro i gatti, che ritenevo animali eleganti e silenziosi. Però non sapevo se fossi o meno allergica al loro pelo, o se lo fosse mia figlia. Visto che avevo fatto fuori il quaderno con Snoopy in copertina, decisi di controllare tra le mie cose. Doveva pur esserci una qualche cartella clinica da qualche parte, visto che in fondo avevo comunque partorito.
Non trovando nulla a casa mia, frugai da mia madre.
«Cosa è quello?» chiese Luce individuando un’agenda rossa sotto una pila di documenti.
Sorrisi. «E brava la mia ragazza», considerai. «Per cena puoi avere i broccoli!»
«Non mi piacciono i boccoli», protestò lei.
«Broccoli», la corressi. «Allora come premio non ti faccio i boccoli e ti faccio i broccoli».
L’agenda era ancora una volta stracolma di informazioni. Tuttavia non capivo una mazza di fisica, come era sempre stato, quindi per me tutta quella roba era come ostrogoto traslitterato in greco. Nell’ultima pagina però trovai una sorta di nota esplicativa. Erano poche righe scritte in penne blu, nelle quali si sintetizzava per sommi capi il funzionamento degli universi paralleli. Era tutto comprensibile, anche troppo forse. Ciò che lessi mi inquietò. La grafia inoltre era quella di mia madre. Almeno da morta mi rivelava ciò che mi aveva sempre nascosto da viva. Strappai quindi quella pagina e la feci a pezzi.
«Sei arrabbiata?» chiese Luce.
Scossi il capo, fingendo di star bene. «No!» dissi.
«Cosa c’era scritto in quel foglio?»
«Era una ricetta per una torta», mentii ancora.
La compensazione, la morte definitiva di alcune persone, la cuspide, il non potersi suicidare, la figlia femmina a ventitré anni, il fatto che prendendo una decisione importante gli universi si sdoppiassero: tutte cazzate! La fisica è una scienza che l’uomo studia per approssimazione e che non può evitare di inzozzare con minchiate mistiche. Gli esseri umani sono incapaci di accettare la casualità e perciò ipotizzano l’esistenza di un destino che talvolta chiamano Dio. In fondo quando accade una tragedia è confortante incolpare un disegno superiore.
«Sai che dico?» conclusi sorridendo a mia figlia, e decidendo che non le avrei mai rivelato il vero significato e funzionamento degli universi paralleli. «Adesso la mamma ti porta a prendere un gatto, ok?»
«Voglio un coccodrillo!» affermò quindi. Le presi un’iguana e lei lo chiamò Merda.

Il 7 Ottobre 2016, mentre preparavo la colazione, e mentre sculettavo spensierata sulle note di Days are Forgotten, mia figlia, ormai dodicenne, apparve in cucina. Aveva sul volto un’espressione sconvolta.
«Tutto bene, amore?»
Scosse il capo. «Perché abitiamo qui?» chiese spaventata. «Dove è papà?» continuò. «Il tuo piede…» osservò infine. «Mamma, ti è ricresciuto il piede?»