L’altra bionda succhiava meglio. (Finale)

Train set and match spied under the blind
Shiny and contoured the railway winds
And I’ve heard the sound from my cousin’s bed
The hiss of the train at the railway head
Always the summers are slipping away

Porcupine Tree – Trains

 

 

«Uno per Roma».
«Andata e ritorno?» mi chiedi con gentilezza.
«È indifferente».

Sei una bella ragazza, hai un bel corpo, hai un bel viso e, dal mio punto di vista, dal mio sessista punto di vista, con questo corpo non dovresti lavorare in tabaccheria. O forse sì, forse oltre che sessista sono anche presuntuoso, forse ho la presunzione che al prossimo non piaccia il proprio lavoro solo perché a me non piace il mio.

Così mi trovo seduto nella sala aspetto, ad osservare te, te, te e anche te. Osservo tutte voi, mie care belle figliole, osservo tutte quelle con cui passerei volentieri la notte, ma da cui fuggirei poi al risveglio. Sono cambiato nel tempo, sono diventato tipo da caffè, croissant e La Repubblica. Sono tra quelli che dal giornalaio ci vanno soprattutto per farsi la passeggiata, uno dei troppi che “tanto il 90% delle notizie le leggo da internet”. Le edicole non sono più il paradiso delle riviste erotiche, non scorgi più certi cazzoni o tettone invitanti esposti di fianco ai vari surrogati de La Settimana Enigmistica. Le edicole non sono nemmeno più il covo dell’informazione, ed è sbagliato, è sbagliato perché leggiamo meno e molto peggio. Il gossip tira più dell’approfondimento, sappiamo tutto della vita sessuale di Belen, ma non sappiamo quasi nulla di quanto avviene a Taiwan, Taipei o in posti generalmente costretti al trafiletto giornalistico. Lo so, sono discorsi da anziano catarroso e pessimista, ma ecco, prima o poi bisogna cominciare ad invecchiare, no?

«Dove va?» chiedi accomodandoti nel sedile di fronte al mio.
«Roma», ti sorrido gentilmente «tu?»
«Germania».
«La Germania è a Nord», ti faccio notare «questo treno invece va verso Sud».
«Non ci vado da sola in Germania».

E così esci dalla mia vita prima ancora di entrarci, facendomi notare che in Germania non andrai sola. Tu hai voglia di chiacchierare con me, ne hai voglia più per desiderio di compagnia che per eccitazione. Per me è il rovescio, è più desiderio di eccitazione che voglia di compagnia. C’era un fumetto che mi piaceva parecchio, era un fumetto a carattere pornografico, un fumetto che mostrava una scena in treno tra sconosciuti. C’era una lei che indossava delle scarpe con il tacco, scarpe da cui liberava il piede destro, per poi poggiarlo sul pacco di lui. È un’immagine che ho sempre trovato eccitante, un’immagine che, di fatto, mi accompagna in ogni singolo viaggio in treno che affronto.

«Perché va a Roma?»
«Lavoro» rispondo, ma rispondo con una bugia.
Non vado a Roma per lavoro, ci vado per tornare nel luogo in cui io e la bionda toscana ci siamo incontrati. Era una tabaccheria, la sua tabaccheria, quella in cui vendeva i gratta e vinci mentre canticchiava “Male di Miele”. Avevo acquistato qualcosa, forse delle sigarette o forse un biglietto dell’autobus, o forse entrambi o nessuno dei due.

«Come ti chiami?» le chiesi quando mi diede il resto.
«Fa davvero la differenza sapere come mi chiamo?»

E così tu, ennesima ragazza bionda con cui condivido la tratta fino a Roma, passi dallo status di possibile partner papabile per un 69 furente, a quello di logorroica compagnia che parla di una marea di argomenti di cui mi importa meno di un cazzo.
Anche la bionda toscana, che poi era umbra ma vive al nord eccetera eccetera, affrontava un sacco di argomenti che non mi interessavo. Ma la lasciavo parlare, e non perché fossi paziente, ma perché mi piaceva il suono della sua voce, anche se pronunciava parole di cui non mi importava nulla. È un poco come una brutta canzone suonata da una buona chitarra, non puoi non ammettere che abbia un bel sound. Ascoltavo poco quindi, la sentivo ma non l’ascoltavo e forse per questo non ho mai saputo come si chiamasse. Forse per questo lei preferisce spedirmi delle fotografie piuttosto che mandarmi delle lettere, lei, che in questo universo digitalizzato e digitalizzante, stampa ancora le foto su carta e scrive le lettere a penna. In fondo la bionda è una partner che al sesso virtuale preferisce quello reale, una donna che alle descrizioni in chat preferisce il sapore del frenulo sulle labbra, una compagna di letto che non crede a un’erezione finché non ne percepisce la consistenza con mano.

«Domani parto» disse un giorno.
«Dove vai?»
«Non credo sia importante», concluse «mi mancherai».

Non mi disse nemmeno allora come si chiamasse, ma tempo dopo mi contattò su Facebook, per quanto fosse registrata con un nome fittizio, cioè “Caffettiera Bionda”. È stato dai social che ho appreso dove viva, è stato grazie ai social che ho scoperto a luoghi della Toscana è legata e, sempre dai social, ho capito che il mio passaggio nella sua esistenza sia stato importante. No, non ha mai postato nulla di stucchevole riferito a me, nessuna frase triste, nessuna espressione di odio, o quant’altro. Ha solo cominciato a fotografare le caffettiere, ha cominciato a fotografarle per raccontare i suoi viaggi. Quindi, se conosci qualcuna che ha postato foto di caffettiere a Parigi, Amsterdam, Alghero o Roma, quella è lei.

«…così anche lui ha trovato lavoro ad Amburgo e abbiamo deciso di trasferirci». Sorridi. Sorridi dopo aver terminato di raccontarmi la tua vita; sorridi dopo aver ultimato un resoconto che ho finto di ascoltare con attenzione; sorridi perché il mio disinteresse è stato ben celato o forse sorridi perché parlare della tua vita ti mette di buon umore.
«Parlami di te», aggiungi alla fine.
«Ho quarant’anni e faccio un lavoro da ventenne».
«E poi?»
«Conoscevo una ragazza con i capelli viola».
«Era speciale?»
«No», concludo «È stata semplicemente l’ultima non bionda».
«E allora?».
«E allora non vale più la pena parlarne».
Aveva ragione la toscana bionda, aveva ragione quando sosteneva che prima o poi non avrei più parlato della donna dai capelli viola.
«Conoscevo una bionda», riprendo quindi «era umbra, abitava nell’Alessandrino, adorava bere il caffè e ascoltava gli Afterhours. Era uguale a tutte le altre bionde, ma anche assolutamente diversa».

 

Qualche caffettiera prima.

«Domani parto» disse quell’ultima volta.
«Dove vai?»
«Non credo sia importante, mi mancherai».
«Non mi hai mai detto come ti chiami».
«Nemmeno tu hai raccontato tutto di te».
«Conosci il mio nome».
«Vero, ma non è sufficiente per conoscerti. Di te non so nulla, salvo che ti piaccia dipingere, anche se la pittura non è il tuo lavoro. Mostri solo ciò che ti interessa mostrare, come quando affermi che fai un lavoro da ventenne, senza però specificare che lavoro sia».

E così se ne è andata via e mi ha pagato con la medesima moneta.
So dove vive ma non so come ci sia arrivata; so se sta male, ma non so chi o cosa la ferisca;  so che non mi ha dimenticato, ma non mi ha mai spiegato il perché. So che pensa a me, lo so perché me lo ricorda con le foto delle caffettiere, ma non ho mai capito se il suo sia amore, odio, entrambe le cose o nessuna delle due.

Anna – Ventre.

Mi chiamo Anna, ho quarant’anni e non sono coerente: amo a dispetto delle cicatrici; possiedo un gatto nonostante preferisca i cani; adoro la neve ma non so sciare; detesto il sapore del tabacco eppure fumo; anche se conosco tutte le canzoni dei Cranberries, alla fine canto sempre la stessa; sono una rossa che passa spesso per bionda; non sembro tatuata eppure lo sono e insegno la materia meno coerente con la filosofia didattica di un liceo classico. Mi chiamo Anna, ho quarant’anni e racconto la mia storia partendo dalla fine senza tuttavia rivelare il finale.

Mi chiamo Terzo e sono un capitolo nella storia di Anna. La protagonista è una trentacinquenne sposata che possiede un gatto di nome Ercole. In questa città nevica spesso, i tabaccai vendono le sigarette al mentolo e le emittenti indipendenti talvolta passano i Cranberries. Anna sente una mano poggiarsi sulla spalla, sorride malinconicamente e poi sospira osservando l’ombelico nudo mentre una sosia di Brody Dalle le tatua una lumachina sul basso ventre. E, mentre l’inchiostro penetra sotto la pelle, Anna prova dolore, un dolore fisico definibile “impercettibile” rispetto a quello emotivo che la dilania da tempo. Anna coabita con un dolore che cerca di ignorare provando a concentrarsi su come domani imposterà il discorso sulla Termodinamica.

Mi chiamo Anna, ho trentacinque anni e vivo con Ercole, con mio marito e, purtroppo, con nessun altro. Fuori nevica, ma piango; fumo malinconicamente una sigaretta, mentre la radio passa Ode To My Family. C’è mio marito alle mie spalle, mi consola e sancisce la sua presenza; la mia mano scorre dal seno verso il basso ma si ferma all’ombelico perché non riesco a scendere dove percepirei nuovamente il lancinante vuoto provato in questi minuti. Comincio nuovamente a singhiozzare ma non spengo la radio. Non la spengo perché sono stati i miei allievi a dedicarmi la canzone, loro, mie povere adorabili e, in questo momento, inconsapevoli stelline.

Mi chiamo Roberto e sono il marito di Anna. Mia moglie ha trentaquattro anni e in questo preciso istante tiene Ercole in grembo accarezzandolo sotto il collo. In questa città nevica spesso ma il bianco non è il colore predominante nella nostra esistenza, non quanto il rosso almeno: come quello del pacchetto delle sigarette che fumiamo entrambi; o come quello dei mirtilli che qui dentro non mancano mai. Mia moglie adora i baci sulle spalle mentre con una mano le sfioro l’ombelico e con l’altra le accarezzo la vagina. Anna insegna Matematica e Fisica in un liceo classico cittadino, ma stamane non ha parlato di Termodinamica perchè ha preferito offrire un gelato ai propri allievi. I diciassettenni ne hanno intuito il motivo, nonostante lei non abbia esplicitato alcunché, e alcuni tra loro l’hanno anche abbracciata ma, per mia fortuna, i medici nelle prossime settimane non saranno altrettanto arguti da capire che il livido violaceo vicino all’anca non sia frutto di una caduta.

Mi chiamo Anna, ho trentaquattro anni e sono la padrona di un gatto, la moglie di Roberto e … puntini di sospensione. Vivo di colori: come il bianco delle neve di questa città; come l’arancio del filtro delle mie bionde preferite; come il rosso dei palloncini raffigurati sulla copertina di Wake Up And Smell The Coffee; come il celeste che… puntini di sospensione. Sorrido, sorrido pensando ai pesi sempre crescenti che avrò la fortuna di sorreggere sulle mie spalle, sul mio ombelico e sul … puntini di sospensione. Domani sarà complesso interrogare Termodinamica, sarà complicato essere severa con i diciassettenni, anche perché insegno Matematica e non potrò non constatare che la distanza che mi separa da loro sia la stessa che separa loro da … puntini di sospensione. La devozione altrui è scegliere un pomeriggio estivo al parco perché … puntini di sospensione … il compromesso è non fare il bagno perché… puntini di sospensione … “amore” dovrebbe essere perdonare uno schiaffo perché so che lui è nervoso: ma mi sbaglio e dunque via i puntini di sospensione; maledetti merdosi e ipocriti puntini di ‘stocazzo. L’amore è quello che percepirò per nove mesi aspettando ingenuamente e inutilmente che una lumachina bavosa si appresti a rendere meravigliosa la mia miserabile esistenza di colori e violenza domestica.

Mi chiamo Anna, ho quarant’anni e sul collo ho segni che non posso non vedere ma che non voglio coprire. Ora cammino sotto la pioggia con il mio ombrello bordeaux sperando che a giorni arrivi la mia adorata neve. Canticchio When You Are Gone in attesa del mio ragazzo: dovremmo andare a cena ma probabilmente non ci arriveremo mai. È la prima volta che vedo da vicino la canna di una pistola ma vi giuro che avrei preferito che il caso mi dispensasse da questo genere di esperienza.

«Una volta la cantavi per me».

«Una volta avrei avuto paura di morire».

Ma mi manchi quando non ci sei…

Continua domani.

Capitoli Precedenti:

Spalla.

Ombelico

#frammento 47

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C’è una rosa poggiata tra due pagine dello stesso libro, separa.
Separa la prossima pagina da scrivere da quella da strappare.
Strappare un sorriso alla persona sbagliata al momento giusto.
Giusto per non dimenticare il fine ultimo dell’umanità: il tempo.
Il tempo di un caffè e ci siamo innamorati, o forse no, dimenticarsi.
Dimenticarsi di essersi voluti beni, graffiati, baciati, odiati, rìvestiti.
Rivèstiti, che quel cazzo di accento non so dove ficcarlo, maledizione.
Maledizione sull’intera cittadinanza che non ha sacrificato l’oca.
C’è un’orca spiaggiata tra due volumi dello stesso oggetto, impara…
impala il tuo nemico e farlo impugnando un crocifisso, diffondi…
confondi, in fondo non c’è fondo fino in fondo allo stesso mondo…
mondani nostrani sempre più lontani a separare gli esseri simili…
sibili, come i lividi sul collo per chi non si inginocchia a succhiare…
amare, come verbo finale della declinazione di chiavare, chiave di re
reati minori al temo del giustizionalismo privato, o forse anche meno.
Mena! Mena sempre per primo, uccidi il tuo simile, sii umano.
Sangue.
Non mestruo, sangue.