#frammento 50

Giurare di cambiare e tante altre simili promesse che non andrebbero mai avanzate:
poi è necessario mantenere, e la coerenza, è risaputo, non è di questi tempi. Proprio
come lui che tornò da Lei, quando Lei lo richiamò. Si diedero reciproche colpe, ma poi
ma poi, sì, poi, e ancora poi, quando dichiararono di volersi ancora, e si ricominciò
e tutto da capo, in un esplosione di lacrime e affetto. Parlare di quanto abbiano perso.
Quel senso di vuoto percepito per lunghi X giorni, riempendo il vuoto su whatsapp.
O forse no! Forse è solo un riverbero retorico che fa sopravvivere un tedioso romanticismo. Perché è troppo presto giurare affetto senza avere la cautela di osservare le cicatrici.
Che poi esiste un motivo se, per esempio, lunedì e giovedì hanno quei nomi diversi:
sono giorni differenti in fondo. Non si assomigliano, esclusi alba e tramonto in comune.
E le persone non fanno differenza. O meglio, poche persone fanno differenza. Raramente
quelle attenzioni che il lunedì colmano ogni vecchio vuoto sono già scemate il giovedì,
ma ogni singola parola che Lei pronuncia puzza della stessa identica merda già masticata. L’amarezza percepita tempo prima, l’incapacità di perdonare, di credere alle rassicurazioni. Anche quando giura di amarlo, che le frasi pronunciate talvolta sono solo frasi: è colpevole!
è Lui il vero colpevole, così feroce da cercare un pretesto per mollarla così, di botto, con un… punto.

Mi avete rotto il cazzo – Traccia 2

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Il mio paese era diviso in due parti, una alta e una bassa, separate tra loro da un dislivello di quasi cento metri. C’era una vecchia casa abbandonata, nella parte alta, con piccole porte e intonaco esterno scrostato; il tetto spiovente, con tegole scolorite o divelte dal tempo, si affacciava su un giardino di vegetazione ormai secca; sul retro i resti di un vecchio forno per quando ancora si faceva il pane in casa; sullo sfondo la vecchia e aspra montagna a ricordare che l’uomo non potesse costruire ovunque. Il camposanto si trovava invece nella parte bassa del paese, quella più moderna, isolato dal centro abitato da una stretta stradina circondata da due vigne ormai incolte. Durante il funerale di t cominciò a nevicare, a nevicare tanto. Mi affascinava la neve che non distingueva le tombe dei ricchi da quelle dei poveri, la neve che si poggiava dove trovava posto, indifferentemente. Anche le vigne vennero innevate, apparendo così meno abbandonate del solito. Ricordo il tetto spiovente della vecchia casa, ricordo che fosse coperto di bianco come quello delle altre costruzioni, e ricordo che l’unica differenza con queste fosse l’assenza di un camino fumante. In cuor mio, anche se magari non c’entrava nulla, associai quell’immagine a And Justice For All.
«Cade a pezzi», disse Y.
«Vedo», sorrisi malinconicamente, «tu che sei credente, hai pregato per t?»
«È un
segreto tra me e Dio», concluse, «cosa facciamo stasera?».
Quella sera avrei voluto collassare per risvegliarmi il giorno dopo perfettamente lobotomizzato. Non volevo passare un’altra notte a sognare t, n
é volevo partecipare ad altri incubi frustranti e disarmanti con lui protagonista: sognavo lui agonizzare e sua madre piangere; lo sognavo sul palco con noi, con il Jazz Fender color porpora; poi lo sognavo al bar, mentre si esaltava o bestemmiava giocando a Street Fighter II; lo sognavo non per malinconia ma per rimorso, ricordandomi la nostra ultima, e ormai frustrante, conversazione. Purtroppo non sempre ci si saluta in modo pacifico, perché i conflitti umani esistono, in particolare durante quel Can-can ormonale noto come adolescenza. La sola consolazione possibile è un bilancio complessivo del rapporto, distinguere cioè i momenti sereni da quelli di attrito sperando che i primi superino i secondi per quantità e intensità. t in fondo era un umano, e in quanto tale aveva difetti e vizi, nonché un’assoluta distanza da qualsiasi forma di pazienza prossima al concetto metafisico di santità. In sintesi era coglione tanto quanto noi e, per tale motivo, era un’utopia pretendere di non bisticciare mai. In ogni caso era ormai morto e sepolto, a differenza di Y che aspettava ancora una risposta riguardo il proseguo di quella giornata ammorbante. Era San Silvestro, l’occasione preposta per eccellenza ai bagordi, la notte in cui si esce sperando di scopare e non ubriacarsi, ma in cui si rientra ubriachi senza aver scopato.
«Io avrei voglia di non fare nulla», replicai, «ma se non esco mi ritrovo a casa di nonna a rispondere alle domande indiscrete delle mie zie».
«Mia madre scende a Cagliari per lavoro», propose, «ci sono i Lunapop».
«I Lunapop?», chiesi retoricamente, «vuoi davvero vedere i maledetti Lunapop?»
«Siamo messi
decisamente male stasera, vero?»
Risi e lo fece anche Y. Una settimana prima non avrei assistito a un concerto dei Lunapop nemmeno se
mi avesse garantito la certezza di fare poi sesso a tre con Luisa Corna e Manuela Arcuri; sia chiaro, intendo la Corna e la Arcuri del 2000, non quelle odierne. Ma in quel momento i Lunapop sembravano un’ottima occasione per prendere le distanze dal paese, paese che quel giorno puzzava, oltre che di vecchi ricordi, di morte e di cattività emotiva. A detta di Dostoevskij gli uomini si distinguono dal modo di ridere. Y aveva riso in modo sincero e determinato, come se volesse affermare il suo diritto umano alla felicità nonostante il recente lutto; io avevo riso in modo acre e istintivo, quasi non fossi pronto a farlo, in modo assolutamente sorprendente. Sembrava avessimo eluso la morte, anche se solo per un attimo. Un attimo, appunto, un attimo solo, prima che il mio sorriso scomparisse rapidamente. Avevo visualizzato mentalmente un’immagine terribile: vedevo t, seduto su una nuvola, che scuoteva la testa; era come infastidito dalla velocità con cui avevamo ripreso possesso della nostra spensieratezza. Mi sentii terribilmente in colpa, al limite dell’angoscia.
«Smettila!», gli intimai,
«siamo in lutto».
«Fottiti», replicò
Y, «posso fingere di non divertirmi, ma non voglio sentirmi in colpa se accade».
Segretamente, intimamente, il mio decennale ateismo sembra
va essersi arreso alla prima vera prova di indipendenza dal metafisico. L’emancipazione più complessa da raggiungere è quella legata alle nostre convinzioni radicate. Quando la tua infanzia è costantemente esposta a pregiudizi, bigottismo e superstizione, l’adolescenza diventa un momento di ribellione impulsiva: leggi tanto e riscrivi i parametri di tolleranza; ti crei una tua morale e lotti per l’emancipazione. Al liceo ti presentano Cartesio, e il Cogito Ergo Sum sembra aprirti una nuova prospettiva. 
È come se capissi qualcosa di te, almeno nelle sfumature più essenziali: cominci a ripetere che devi iniziare a pensare, perché più pensi e meno ti sottometti ai meccanismi sociali. È come se la tua testa viva una sorta di primavera dopo l’inverno del mommotti e del catechismo. Ogni confronto con gli adulti diventa una discussione adrenalinica. Ma il tuo subconscio è in quiete, pronto a colpirti sul più bello, pronto a rivoluzionare il tuo ateismo distillando lentamente superstizioni varie che per anni, appunto, ti sono state sottoposte. E che tu lo voglia o meno, cederai alle credenze del cazzo che ti ha ficcato in testa tua nonna quando eri ancora un bambino, anche se proverai a negarlo costantemente.

«Che programmi hai?», ribadì ancora Y, «vuoi passare i prossimi giorni o mesi a ripensare alla volta che tu e t siete quasi venuti alle mani? Aveva torto lui, torto marcio. Aveva torto come altre volte, e aveva torto perché in fin dei conti è sempre stato un merdoso opportunista viziato ed egocentrico. Era un egoista, perché solo un egoista muore a Natale. Noi ci dimenticheremo di lui, ma i suoi parenti? Sua madre credi che festeggerà nuovamente il Natale in futuro?»
Fra poco saranno sedici anni dalla morte di t. Sua sorella
oggi ha ventisette anni e non ha ricordi di lui che non siano legati ai malinconici racconti materni. È una ragazza alta e formosa, con capelli ricci tagliati corti, carnagione chiarissima ed efelidi diffuse: assomiglia al fratello quanto un cocker spaniel assomiglia a un coccodrillo. Ha avuto ragione Y, la madre di t non ha mai superato la morte del figlio e di fatto ha trasformato il Natale in una ricorrenza tabù. Ma per tutti gli altri, compresi noi, è arrivato, a volte prima, a volte dopo, il momento per associare nuovamente la settimana che da Santo Stefano porta al Capodanno semplicemente al cenone di San Silvestro. Il nostro paesino, quella notte, avrebbe festeggiato nonostante il lutto e nonostante il gelo. Erano state cancellate le manifestazioni pubbliche ma non quelle private. In fondo era giusto così, perché se per la madre era morto un figlio, e se per noi era morto un amico, per tutti gli altri era semplicemente morto un ragazzo. In piazza c’erano persone che parlavano tra loro in modo sereno, l’orologio della chiesa rintoccava le 17. Ebbi un flash della mia probabile nottata, parcheggiato a un angolo della tavolata a bere compulsivamente, in solitudine: bere per bere, tanto valeva farlo in buona compagnia.
«Vada per i Lunapop», conclusi dunque.
E l’alcol fu l’unica certezza indissolubile di quel maledetto San Silvestro: partimmo da casa promettendoci di bere tanto e rientrammo completamente ubriachi. Ma stavamo per fare qualcosa che avrebbe messo fine a un’amicizia che credevamo indissolubile.

…continua

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Mi avete rotto il cazzo – Traccia 1

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Mancavano pochi giorni alla notte di San Silvestro del 2000. Non c’era la paura del Millennium Bug, come l’anno precedente, né quella della fine del mondo, come capitava nel Medioevo. Eravamo maggiorenni, ma non ancora ventenni. Frequentavamo l’ultimo anno di liceo e a nessuno di noi dispiaceva dire “addio” a Latino e Filosofia. Quando si parla delle scuole superiori, quando se ne parla al passato, si dipinge un periodo fondamentalmente romantico ed emotivamente intenso; ma a noi, al contrario, non succedeva mai nulla, e andare a scuola non era diverso da andare andare a messa: dovevi restare seduto in silenzio e credere alla sola realtà che ti veniva propinata. Ci sono tante analogie tra l’insegnamento liceale e la catechesi: il bisogno di ricostruire l’antropologia sin dalla genesi; l’eccessivo dogmatismo legato ai contenuti; la presunta infallibilità di chi redige i piani di studi; l’insegnante ridotto a burattino parlante di un determinato establishment culturale; l’assenza di fiducia nello spirito critico dell’utenza. L’autonomia degli insegnanti è profondamente limitata, così come è limitata quella dei parroci: possono variare vagamente la forma, ma guai a variare i contenuti.
«Che fai?»
«Aspetto che i maiali imparino a parlare».
«Non hai fretta dunque».
«Ne ho mai avuta?»
Lui era Y.

Y aspettava che i maiali imparassero a parlare, e lo aspettava sin da quando era bambino. Non era matto, era solo nostalgico: per nostalgia non bestemmiava, perché era stato chierichetto; per nostalgia fumava Alfa, perché aveva cominciato con quelle; per nostalgia studiava tanto, perché da piccolo sognava di fare l’astronauta. Non era però un tipo malinconico, era una sorta di ombra flemmatica che indossava la felpa dei Buzzcocks e i jeans strappati. Era un chitarrista vero, era incapace di sfogare le proprie emozioni se non attraverso la musica. Presumo che se non si fosse dato alla chitarra, probabilmente si sarebbe cosparso di benzina e arso vivo come Thích Quảng Đức.
«Cosa è successo?»
«È arrivata la
lettera», sorrise amaramente frugando nelle tasche del parka.
«E quando?»
«È indifferente», poggiò una sigaretta sulle labbra, «hai da accendere?»
Ecco un dettaglio notevole di Y: era incompleto. Y era un fumatore che girava senza accendino; Y era un chitarrista che non aveva mai il plettro; Y era un buon cristiano che non si faceva più vedere in chiesa. Era bello. Era di una bellezza incompleta. Aveva un bel viso, con lineamenti armonici, labbra carnose e occhi dal taglio vagamente asiatico; ma aveva anche uno strano neo sulla punta del naso, una roba che non potevi non osservare e che ti distraeva dai suoi occhi chiari.
Era una versione allampanata di Tom Yorke, molto ambiguo, anche nel modo di sorridere, ma del resto, come diceva Herman Melville, il sorriso è il veicolo dell’ambiguità.
«Tieni»,
dissi passandogli l’accendino e sollevandomi in piedi.
Non mi piaceva stargli vicino quando stava in que
lla maniera. Aveva diverse cicatrici nella parte interna dell’avambraccio, figlie dell’emulazione di Sid Vicious e di un autolesionismo adolescenziale che all’epoca, paradossalmente, a noi sembrava più che normale. A parte ciò, lo ritenevo un tipo pericoloso, decisamente aggressivo, anche se, nonostante avesse pestato a sangue tanti coetanei, non mi aveva mai aggredito in vita sua. Era una sorta di ordigno inesploso, e credo che nessuna metafora possa essere più adatta per definirlo. Y era un cazzo di pacifista, o così si definiva, che per forza di cose si era ritrovato a dir sì all’esercito: tre anni di ferma, con tanto di stipendio, contributi pagati e tutto il resto. Quando lo disse ricevette parecchi complimenti, soprattutto da persone che non lo conoscevano bene, da compaesani che ignoravano quanto la sua non fosse stata una scelta.
«Non sei obbligato a dirmi che ti dispiace», fece notare.
«Non avevo infatti alcuna intenzione di farlo», conclusi sorridendogli.
«A che ore arrivano gli altri?»
«Al solito orario».
“Gli altri” erano Z e t, rispettivamente Basso e Batteria della band. A proposito, io sono X, il cantante. A questo punto presumo non vi stupisca apprendere che ci facevamo chiamare Le Coordinate Cartesiane. Lo so, era un nome davvero del cazzo, ma non a caso siamo stati una band del cazzo. Si provava due volte a settimana, chiusi in uno stanzone alto che anni prima era stato un mattatoio per ovini. L’acustica di quel luogo era terrificante, con i muri in blocchi di cemento cavi che creavano distorsioni e riverberi infiniti. Non a caso, a prove finite, era abbastanza comune tornarsene a casa con una fastidiosa emicrania.
«Tua madre lo sa?», chiesi infine.
«No», concluse in modo fermo, «e non deve saperlo», mi fissò, «chiaro?»
«Chiaro».
La lingua di Y venne metaforicamente mozzata dal fastidioso rumore dello scarico montato sul
Typhoon di Z. Y non parlava mai con gli altri, né parlava di fronte a loro, non che ci fosse chissà cosa da dire. t era una persona altrettanto silenziosa, anche se poi con le bacchette in mano ci dava sufficientemente dentro. Z era invece fin troppo esuberante per essere un bassista. Io? Gli altri dicevano che fossi troppo borghese per fare il cantante punk, e troppo ignorante e grossolano per scrivere liriche new wave o new romantic. A pensarci bene, ero affascinato soprattutto dalle band della West Bay californiana, cioè da personaggi nati e cresciuti con la tavola da surf o lo skateboard sotto i piedi, mentre io perdevo l’equilibrio anche in bicicletta.
«t?», chiesi quando ci rendemmo conto che Z fosse solo.
«Come?», si tolse il casco, osservandoci preoccupato, «non sapete nulla?»
«Di cosa?»
Z ci guardò come se fosse al cospetto di due alieni. Era turbato, decisamente turbato, aveva il volto scavato e lo sguardo stanco. Era successo qualcosa, questo era ovvio e da come si comportava era stato qualcosa di grosso.
«Sono
venuto in scooter perché al telefono non riescono a rintracciarvi», concluse, mentre i suoi occhi si stavano arrossando, stava per piangere.

Tempo pochi secondi e sarebbe venuto da piangere anche a noi.

continua…

L’altra bionda succhiava meglio. (Finale)

Train set and match spied under the blind
Shiny and contoured the railway winds
And I’ve heard the sound from my cousin’s bed
The hiss of the train at the railway head
Always the summers are slipping away

Porcupine Tree – Trains

 

 

«Uno per Roma».
«Andata e ritorno?» mi chiedi con gentilezza.
«È indifferente».

Sei una bella ragazza, hai un bel corpo, hai un bel viso e, dal mio punto di vista, dal mio sessista punto di vista, con questo corpo non dovresti lavorare in tabaccheria. O forse sì, forse oltre che sessista sono anche presuntuoso, forse ho la presunzione che al prossimo non piaccia il proprio lavoro solo perché a me non piace il mio.

Così mi trovo seduto nella sala aspetto, ad osservare te, te, te e anche te. Osservo tutte voi, mie care belle figliole, osservo tutte quelle con cui passerei volentieri la notte, ma da cui fuggirei poi al risveglio. Sono cambiato nel tempo, sono diventato tipo da caffè, croissant e La Repubblica. Sono tra quelli che dal giornalaio ci vanno soprattutto per farsi la passeggiata, uno dei troppi che “tanto il 90% delle notizie le leggo da internet”. Le edicole non sono più il paradiso delle riviste erotiche, non scorgi più certi cazzoni o tettone invitanti esposti di fianco ai vari surrogati de La Settimana Enigmistica. Le edicole non sono nemmeno più il covo dell’informazione, ed è sbagliato, è sbagliato perché leggiamo meno e molto peggio. Il gossip tira più dell’approfondimento, sappiamo tutto della vita sessuale di Belen, ma non sappiamo quasi nulla di quanto avviene a Taiwan, Taipei o in posti generalmente costretti al trafiletto giornalistico. Lo so, sono discorsi da anziano catarroso e pessimista, ma ecco, prima o poi bisogna cominciare ad invecchiare, no?

«Dove va?» chiedi accomodandoti nel sedile di fronte al mio.
«Roma», ti sorrido gentilmente «tu?»
«Germania».
«La Germania è a Nord», ti faccio notare «questo treno invece va verso Sud».
«Non ci vado da sola in Germania».

E così esci dalla mia vita prima ancora di entrarci, facendomi notare che in Germania non andrai sola. Tu hai voglia di chiacchierare con me, ne hai voglia più per desiderio di compagnia che per eccitazione. Per me è il rovescio, è più desiderio di eccitazione che voglia di compagnia. C’era un fumetto che mi piaceva parecchio, era un fumetto a carattere pornografico, un fumetto che mostrava una scena in treno tra sconosciuti. C’era una lei che indossava delle scarpe con il tacco, scarpe da cui liberava il piede destro, per poi poggiarlo sul pacco di lui. È un’immagine che ho sempre trovato eccitante, un’immagine che, di fatto, mi accompagna in ogni singolo viaggio in treno che affronto.

«Perché va a Roma?»
«Lavoro» rispondo, ma rispondo con una bugia.
Non vado a Roma per lavoro, ci vado per tornare nel luogo in cui io e la bionda toscana ci siamo incontrati. Era una tabaccheria, la sua tabaccheria, quella in cui vendeva i gratta e vinci mentre canticchiava “Male di Miele”. Avevo acquistato qualcosa, forse delle sigarette o forse un biglietto dell’autobus, o forse entrambi o nessuno dei due.

«Come ti chiami?» le chiesi quando mi diede il resto.
«Fa davvero la differenza sapere come mi chiamo?»

E così tu, ennesima ragazza bionda con cui condivido la tratta fino a Roma, passi dallo status di possibile partner papabile per un 69 furente, a quello di logorroica compagnia che parla di una marea di argomenti di cui mi importa meno di un cazzo.
Anche la bionda toscana, che poi era umbra ma vive al nord eccetera eccetera, affrontava un sacco di argomenti che non mi interessavo. Ma la lasciavo parlare, e non perché fossi paziente, ma perché mi piaceva il suono della sua voce, anche se pronunciava parole di cui non mi importava nulla. È un poco come una brutta canzone suonata da una buona chitarra, non puoi non ammettere che abbia un bel sound. Ascoltavo poco quindi, la sentivo ma non l’ascoltavo e forse per questo non ho mai saputo come si chiamasse. Forse per questo lei preferisce spedirmi delle fotografie piuttosto che mandarmi delle lettere, lei, che in questo universo digitalizzato e digitalizzante, stampa ancora le foto su carta e scrive le lettere a penna. In fondo la bionda è una partner che al sesso virtuale preferisce quello reale, una donna che alle descrizioni in chat preferisce il sapore del frenulo sulle labbra, una compagna di letto che non crede a un’erezione finché non ne percepisce la consistenza con mano.

«Domani parto» disse un giorno.
«Dove vai?»
«Non credo sia importante», concluse «mi mancherai».

Non mi disse nemmeno allora come si chiamasse, ma tempo dopo mi contattò su Facebook, per quanto fosse registrata con un nome fittizio, cioè “Caffettiera Bionda”. È stato dai social che ho appreso dove viva, è stato grazie ai social che ho scoperto a luoghi della Toscana è legata e, sempre dai social, ho capito che il mio passaggio nella sua esistenza sia stato importante. No, non ha mai postato nulla di stucchevole riferito a me, nessuna frase triste, nessuna espressione di odio, o quant’altro. Ha solo cominciato a fotografare le caffettiere, ha cominciato a fotografarle per raccontare i suoi viaggi. Quindi, se conosci qualcuna che ha postato foto di caffettiere a Parigi, Amsterdam, Alghero o Roma, quella è lei.

«…così anche lui ha trovato lavoro ad Amburgo e abbiamo deciso di trasferirci». Sorridi. Sorridi dopo aver terminato di raccontarmi la tua vita; sorridi dopo aver ultimato un resoconto che ho finto di ascoltare con attenzione; sorridi perché il mio disinteresse è stato ben celato o forse sorridi perché parlare della tua vita ti mette di buon umore.
«Parlami di te», aggiungi alla fine.
«Ho quarant’anni e faccio un lavoro da ventenne».
«E poi?»
«Conoscevo una ragazza con i capelli viola».
«Era speciale?»
«No», concludo «È stata semplicemente l’ultima non bionda».
«E allora?».
«E allora non vale più la pena parlarne».
Aveva ragione la toscana bionda, aveva ragione quando sosteneva che prima o poi non avrei più parlato della donna dai capelli viola.
«Conoscevo una bionda», riprendo quindi «era umbra, abitava nell’Alessandrino, adorava bere il caffè e ascoltava gli Afterhours. Era uguale a tutte le altre bionde, ma anche assolutamente diversa».

 

Qualche caffettiera prima.

«Domani parto» disse quell’ultima volta.
«Dove vai?»
«Non credo sia importante, mi mancherai».
«Non mi hai mai detto come ti chiami».
«Nemmeno tu hai raccontato tutto di te».
«Conosci il mio nome».
«Vero, ma non è sufficiente per conoscerti. Di te non so nulla, salvo che ti piaccia dipingere, anche se la pittura non è il tuo lavoro. Mostri solo ciò che ti interessa mostrare, come quando affermi che fai un lavoro da ventenne, senza però specificare che lavoro sia».

E così se ne è andata via e mi ha pagato con la medesima moneta.
So dove vive ma non so come ci sia arrivata; so se sta male, ma non so chi o cosa la ferisca;  so che non mi ha dimenticato, ma non mi ha mai spiegato il perché. So che pensa a me, lo so perché me lo ricorda con le foto delle caffettiere, ma non ho mai capito se il suo sia amore, odio, entrambe le cose o nessuna delle due.

#frammento 47

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C’è una rosa poggiata tra due pagine dello stesso libro, separa.
Separa la prossima pagina da scrivere da quella da strappare.
Strappare un sorriso alla persona sbagliata al momento giusto.
Giusto per non dimenticare il fine ultimo dell’umanità: il tempo.
Il tempo di un caffè e ci siamo innamorati, o forse no, dimenticarsi.
Dimenticarsi di essersi voluti beni, graffiati, baciati, odiati, rìvestiti.
Rivèstiti, che quel cazzo di accento non so dove ficcarlo, maledizione.
Maledizione sull’intera cittadinanza che non ha sacrificato l’oca.
C’è un’orca spiaggiata tra due volumi dello stesso oggetto, impara…
impala il tuo nemico e farlo impugnando un crocifisso, diffondi…
confondi, in fondo non c’è fondo fino in fondo allo stesso mondo…
mondani nostrani sempre più lontani a separare gli esseri simili…
sibili, come i lividi sul collo per chi non si inginocchia a succhiare…
amare, come verbo finale della declinazione di chiavare, chiave di re
reati minori al temo del giustizionalismo privato, o forse anche meno.
Mena! Mena sempre per primo, uccidi il tuo simile, sii umano.
Sangue.
Non mestruo, sangue.