Mi trovavo a Londra senza ricordare di aver mai pronunciato una sola parola in inglese in vita mia. Stando a ciò che lessi nel quaderno con Snoopy in copertina, abitavo con tre ragazze. Inoltre ero allergica ai latticini, alle uova, al nichel e al malto. «Sono anche allergica al cazzo?» chiesi sarcastica.
«Ben svegliata anche a te!» rispose una ragazza bionda, che dormiva nel letto di fianco al mio. Il suo nome era Alba e, da quanto diceva il quaderno, era la mia migliore amica. Mesi prima eravamo partite assieme a Londra per cercare lavoro. Interessante! Avevo migliaia di euro parcheggiati su un conto bancario, ma volavo in Inghilterra a fare la cameriera/schiava sottopagata in un ristorante gestito da due napoletani imbarazzanti che avevano chiamato i figli Diego e Armando, e che avevano assunto come capocuoco uno strafottuto pakistano che puzzava di Asia pestilenziale anche in fotografia; pakistano che a mio avviso usava il lavoro da cuoco solo come copertura, perché aveva una faccia da merdosissimo pusher.
«Sono razzista…» conclusi dopo l’ultimo ragionamento sul pakistano.
Alba sorrise. «Ma va?» chiese sarcastica.
Mi facevo schifo, ma non potevo mentire a me stessa: detestavo asiatici, mussulmani, ebrei, nord africani, neri, spagnoli, francesi, turchi, siciliani,napoletani, calabresi, campani, genovesi, “romanacci”, abruzzesi, bambini, uomini anziani, portatori di handicap – sui quali facevo ragionamenti che è bene non riportare -, rom, ambulanti, mendicanti, ingegneri, biologi, matematici, studenti di scienze dell’educazione (che definivo brutalmente “scienze delle merendine”), fanatici cattolici, testimoni di Geova e chiunque facesse indossare un cappotto a un cane. A questi andavano ovviamente aggiunti i fan di Marco Masini, Paolo Vallesi e dei Lunapop.
«Porca puttana!» berciai quando mi resi conto che avrei probabilmente augurato la morte a chiunque citasse Il secondo tragico Fantozzi. «Come cazzo fai a sopportarmi?» chiesi ad Alba.
«Non ti sopporto. Ma paghi tutto tu e me la lecchi piuttosto bene!» affermò con candore.
A quanto pare odiavo tutto, ma non cazzo e fica. «Sai che sono incinta?» mi informai allora.
Ci fu un lungo silenzio, ma dopo che la sollecitai Alba rispose. «Sì», replicò con voce sommessa. «Ma non devo parlarne», aggiunse. «Il patto tra noi è questo!»
«Quale patto?»
Non rispose. «Devo andare a lavoro», disse. «A dopo…» concluse prima di andarsene. Inutile provare a fermarla, anche perché sembrava turbata dalla questione Gravidanza a Londra – Prima Parte – Risvegli Razzisti.
Riassumendo: ero incinta da non so chi, razzista fino al midollo, ma anche lesbica e facevo sesso con la mia migliore amica, con la quale avevo stipulato un patto non citato nel mio diario. L’unico aspetto positivo era che a Londra nessuna radio avrebbe passato Vieni da me de Le Vibrazioni. Cercai altre informazioni in giro per casa, dove trovai le altre due inquiline. Avevano una non più di vent’anni, l’altra poco meno di trenta. Sembravano simpatiche, e con “simpatiche” intendo “si facevano i cazzi loro”. La più piccola era la classica italiana all’estero: dreadlocks, felpa di Bob Marley, jeans costosi e stivali con tacco coordinati alla borsa o alla cintura. L’altra era Jennifer; nome britannico, accento belga, passaporto spagnolo; collezionava pornografia bdsm, soprattutto foto, che scaricava costantemente da internet.
«Chi è il padre di mio figlio?» chiesi.
«Sei incinta?» replicarono in coro.
«No», sorrisi. «Scherzavo!»
Feci quindi alcune domande su eventuali fidanzati o frequentazioni, ma mi sentivo ripetere sempre la stessa cosa: ero una lesbica promiscua che non frequentava uomini. Ma a quanto pare avevo una certa passione per la cocaina, le risse e le riunioni nazifasciste poco fuori Londra.
«Sono il tipo di persona che normalmente prenderei a bastonate sulle gengive», considerai tra me e me quando rientrai in camera. Frugai tra le mie cose, e “tra le mie cose” significa “tra le cose mie e di Alba, ma soprattutto di Alba”. Nel guardaroba trovai indumenti; in bagno prodotti per il bagno – grazie al cazzo; nei cassetti le solite stronzate tipo carica-batterie, trucchi, qualche moneta persa chissà quando e l’immancabile Mein Kampf. Sotto il letto c’era polvere e una cassetta di pronto soccorso, al cui interno non trovai esattamente garze, disinfettante o cerotti.
«Porca puttana sverginata», imprecai tra i denti.
La cassetta conteneva un barattolo insanguinato, al cui interno erano conservate tre dozzine di denti umani e due dita mozzate. A una persona sana di mente sarebbe venuto da urlare, svenire o vomitare, ma il mio cervello fece invece una rapida e inquietante analisi di quei pezzi di carne. Uno era l’indice di un uomo adulto tra i venti e trent’anni, l’altro l’anulare di una persona anziana. All’interno della cassetta trovai anche un coltello a lama corta, che presumo fosse l’arma con cui avevo mozzato le dita di chissà chi.
«Esiste un universo dove queste cazzate non mi eccitano?» chiesi a me stessa e a un eventuale dio pagano in ascolto, mentre le mie mutandine si bagnavano come i tetti di Londra quando piove.
Ero ancora presa da questi ragionamenti quando sentii il telefono squillare. Risposi e dall’altra parte ascoltai una voce maschile. «Hai abortito quel coso?» domandò minacciosa.
«Chi sei?»
«Vediamoci fuori Londra», mi disse. «Al solito posto», aggiunse quindi, chiudendo di colpo la chiamata.
Ma nel diario non si parlava di un “solito posto” fuori Londra.
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