Le dimensioni contano – Parte 35

Mi trovavo a Londra senza ricordare di aver mai pronunciato una sola parola in inglese in vita mia. Stando a ciò che lessi nel quaderno con Snoopy in copertina, abitavo con tre ragazze. Inoltre ero allergica ai latticini, alle uova, al nichel e al malto. «Sono anche allergica al cazzo?» chiesi sarcastica.
«Ben svegliata anche a te!» rispose una ragazza bionda, che dormiva nel letto di fianco al mio. Il suo nome era Alba e, da quanto diceva il quaderno, era la mia migliore amica. Mesi prima eravamo partite assieme a Londra per cercare lavoro. Interessante! Avevo migliaia di euro parcheggiati su un conto bancario, ma volavo in Inghilterra a fare la cameriera/schiava sottopagata in un ristorante gestito da due napoletani imbarazzanti che avevano chiamato i figli Diego e Armando, e che avevano assunto come capocuoco uno strafottuto pakistano che puzzava di Asia pestilenziale anche in fotografia; pakistano che a mio avviso usava il lavoro da cuoco solo come copertura, perché aveva una faccia da merdosissimo pusher.
«Sono razzista…» conclusi dopo l’ultimo ragionamento sul pakistano.
Alba sorrise. «Ma va?» chiese sarcastica.
Mi facevo schifo, ma non potevo mentire a me stessa: detestavo asiatici, mussulmani, ebrei, nord africani, neri, spagnoli, francesi, turchi, siciliani,napoletani, calabresi, campani, genovesi, “romanacci”, abruzzesi, bambini, uomini anziani, portatori di handicap – sui quali facevo ragionamenti che è bene non riportare -, rom, ambulanti, mendicanti, ingegneri, biologi, matematici, studenti di scienze dell’educazione (che definivo brutalmente “scienze delle merendine”), fanatici cattolici, testimoni di Geova e chiunque facesse indossare un cappotto a un cane. A questi andavano ovviamente aggiunti i fan di Marco Masini, Paolo Vallesi e dei Lunapop.
«Porca puttana!» berciai quando mi resi conto che avrei probabilmente augurato la morte a chiunque citasse Il secondo tragico Fantozzi. «Come cazzo fai a sopportarmi?» chiesi ad Alba.
«Non ti sopporto. Ma paghi tutto tu e me la lecchi piuttosto bene!» affermò con candore.
A quanto pare odiavo tutto, ma non cazzo e fica. «Sai che sono incinta?» mi informai allora.
Ci fu un lungo silenzio, ma dopo che la sollecitai Alba rispose. «Sì», replicò con voce sommessa. «Ma non devo parlarne», aggiunse. «Il patto tra noi è questo!»
«Quale patto?»
Non rispose. «Devo andare a lavoro», disse. «A dopo…» concluse prima di andarsene. Inutile provare a fermarla, anche perché sembrava turbata dalla questione Gravidanza a Londra – Prima Parte – Risvegli Razzisti.
Riassumendo: ero incinta da non so chi, razzista fino al midollo, ma anche lesbica e facevo sesso con la mia migliore amica, con la quale avevo stipulato un patto non citato nel mio diario. L’unico aspetto positivo era che a Londra nessuna radio avrebbe passato Vieni da me de Le Vibrazioni. Cercai altre informazioni in giro per casa, dove trovai le altre due inquiline. Avevano una non più di vent’anni, l’altra poco meno di trenta. Sembravano simpatiche, e con “simpatiche” intendo “si facevano i cazzi loro”. La più piccola era la classica italiana all’estero: dreadlocks, felpa di Bob Marley, jeans costosi e stivali con tacco coordinati alla borsa o alla cintura. L’altra era Jennifer; nome britannico, accento belga, passaporto spagnolo; collezionava pornografia bdsm, soprattutto foto, che scaricava costantemente da internet.
«Chi è il padre di mio figlio?» chiesi.
«Sei incinta?» replicarono in coro.
«No», sorrisi. «Scherzavo!»
Feci quindi alcune domande su eventuali fidanzati o frequentazioni, ma mi sentivo ripetere sempre la stessa cosa: ero una lesbica promiscua che non frequentava uomini. Ma a quanto pare avevo una certa passione per la cocaina, le risse e le riunioni nazifasciste poco fuori Londra.
«Sono il tipo di persona che normalmente prenderei a bastonate sulle gengive», considerai tra me e me quando rientrai in camera. Frugai tra le mie cose, e “tra le mie cose” significa “tra le cose mie e di Alba, ma soprattutto di Alba”. Nel guardaroba trovai indumenti; in bagno prodotti per il bagno – grazie al cazzo; nei cassetti le solite stronzate tipo carica-batterie, trucchi, qualche moneta persa chissà quando e l’immancabile Mein Kampf. Sotto il letto c’era polvere e una cassetta di pronto soccorso, al cui interno non trovai esattamente garze, disinfettante o cerotti.
«Porca puttana sverginata», imprecai tra i denti.
La cassetta conteneva un barattolo insanguinato, al cui interno erano conservate tre dozzine di denti umani e due dita mozzate. A una persona sana di mente sarebbe venuto da urlare, svenire o vomitare, ma il mio cervello fece invece una rapida e inquietante analisi di quei pezzi di carne. Uno era l’indice di un uomo adulto tra i venti e trent’anni, l’altro l’anulare di una persona anziana. All’interno della cassetta trovai anche un coltello a lama corta, che presumo fosse l’arma con cui avevo mozzato le dita di chissà chi.
«Esiste un universo dove queste cazzate non mi eccitano?» chiesi a me stessa e a un eventuale dio pagano in ascolto, mentre le mie mutandine si bagnavano come i tetti di Londra quando piove.
Ero ancora presa da questi ragionamenti quando sentii il telefono squillare. Risposi e dall’altra parte ascoltai una voce maschile. «Hai abortito quel coso?» domandò minacciosa.
«Chi sei?»
«Vediamoci fuori Londra», mi disse. «Al solito posto», aggiunse quindi, chiudendo di colpo la chiamata.
Ma nel diario non si parlava di un “solito posto” fuori Londra.

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La Mistress mi stressa.

Il Bull si svegliò poco dopo le dieci del mattino, tre ore dopo essersi addormentato. Nello stesso momento in cui si era alzato dal letto, aveva paradossalmente sperato che un qualche fenomeno paranormale, o divinità metafisica, avesse cancellato l’eccitante, ma sanguinoso, weekend appena trascorso.
Non aveva un’idea precisa delle ragioni psicologiche che avevano trasformato una domenica orgiastica in un brutale omicidio, ma gli venne il dubbio che la Mistress avesse deciso sin da subito che quello non dovesse essere solo un semplice gioco erotico. Era altresì certo che la pistola non fosse stata posizionata nel primo cassetto del comodino per puro caso. Ad alleviare solo in parte i sensi di colpa, la vittima – un trentasettenne disoccupato che abitava e viveva solo – era probabilmente morta sul colpo, senza soffrire.
Il cadavere ripulito dalle impronte digitali era stato abbandonato davanti al piazzale di una chiesa di periferia. Le indagini, come spesso capita quando a finire brutalmente è la vita di chi lascia pochissimi affetti, sarebbero state circoscritte a qualche domanda qui e là alla gente del quartiere e a una breve serie di relazioni, senza tutto la scrupolo che sarebbe stato opportuno usare. Il fatto che il poveraccio avesse assunto prima di morire un’ingente quantità di narcotici, oltre alla presenza sul suo corpo di ferite e lividi che potevano suggerire una colluttazione, avrebbe quasi sicuramente fatto archiviare la vicenda come un’esecuzione voluta da qualche pusher. Così, celata l’indeterminata definizione di “spacciatore”, avrebbe trionfato l’impunità, con buona pace di chi credeva a certe vaccate sulla giustizia. Sicuramente nessuno si sarebbe scandalizzato.
I carnefici non erano certo preoccupati dalla galera. Erano ricchi, avevano un ottimo alibi e potevano definirsi amici di un buon numero di rinomati avvocati penalisti.
Il Bull in particolare, che si sentiva assassino anche se non aveva premuto il grilletto, non aveva ipotizzato, nemmeno per sbaglio, che quella vicenda potesse costringerlo alla galera. Già pochi minuti dopo lo sparo, mentre trascinava per le caviglie il corpo esanime della vittima, i suoi pensieri erano comunque concentrati su chi era rimasto vivo. Era preoccupato della Mistress, che viveva la consapevolezza da omicida in preda all’eccitazione e non al rimorso.
Anche se lei continuava a ripetere di essersi semplicemente difesa, il Bull non le credeva. Non a caso, le chiese semplicemente di tacere e dargli una mano a spogliare il cadavere. La donna lo aiutò solo in parte: per denudare la vittima usò un paio di forbici, con la presunta intenzione di far prima. In realtà creò nuove ferite, con uno strano sadismo da necrofila. E anche se parlò di errore, evirare il morto fu un gesto assolutamente premeditato.
Il pene della vittima era ora sotto formalina, conservato assieme alle olive sotto il lavandino della cucina rustica. Non era un vezzo, ma l’inizio di una collezione.

Cunnilingus mancato – Zoofilia unica via!

talia_cherry_picture_by_jonellbiasi64-dagawzrAnche se avrei dovuto, non mi sono chiesto come mai la mia tigre fosse ferita sul dorso e dietro il collo; né mi sono chiesto come mai possedessi una tigre domestica.  Mi sono solo preoccupato di accarezzarla sotto il mento, sperando gradisse. Strana vicenda quella della mia tigre, scappata ad alcuni ragazzi dello zoo di Berlino per portarmi una copia de I Ragazzi dello Zoo di Berlino. La tigre, che per fare in fretta chiamavo brevemente “grosso mammifero predatore alfa della famiglia dei felidi”, appariva piuttosto seccata per le mie continue apologie ai narcotici. Più che altro, non apprezzava il fatto che fossi un pessimo esempio di individuo socialmente integrato, con un lavoro decente e una reputazione solida, capace di godersi le droghe senza diventarne schiavo. È ipotizzabile la deriva cattolica della tigre, piuttosto restia ad accettare il concetto di libero arbitrio. Siamo onesti: come può un animale tanto sottomesso all’istinto, e agli ordini inderogabili di Mistress Mother Natura, adeguarsi alla capacità altrui di prendere decisioni indipendenti da certi vincoli del subconscio?
Su questa riflessione, mi apparve lei.
Era una giunonica e problematica venticinquenne, ex fidanzata di un mio caro amico vincolato a un’ulteriore ragazza problematica. Si chiamava Daniela, e quel giorno indossava un prendisole celeste. I suoi capelli erano spettinati, ma comunque accettabili. Indossava un paio di peeptoe color legno e aveva le unghie degli alluci laccate con smalto argento: esattamente come un personaggio secondario di un telefilm che avevo visto nel pomeriggio precedente. Daniela non era certo di buon umore. Prima mi chiese come mai la tigre fosse ancora viva nonostante le ferite. Poi mi diede una pessima notizia riguardante un’ottima persona. Non seppi risponderle, né confortarla: mi limitai ad osservarla piangere di fronte a me. Fu piuttosto imbarazzante, anche perché attirò l’attenzione di alcuni miei parenti.
«Non è tanto grave», le spiegò Romina, un mio zio ermafrodita morto quando ero ancora bambino. «Potresti essere nata con un seno più piccolo», aggiunse un’altra defunta parente, «e questo ti renderebbe meno popolare».
Le considerazioni sulle forme giunoniche non rallegrarono Daniela, né la lusingarono: era ancora concentrata sulla pessima notizia che l’aveva fatta esplodere in lacrime. Nemmeno la tigre le fu di conforto, visto che comincio ad annusarla all’altezza della vagina. Per un istante immaginai che per una donna potesse essere piacevole essere leccata lì da una lingua tanto larga e rasposa. Poi pensai a tutti i batteri che probabilmente si addensavano nella lingua di un felino, un organo che quegli animali utilizzano per rimuoversi la merda dal buco del culo. E spinto da questa consapevolezza, nonché dal mio ben noto spirito compassionevole, chiesi a Daniela se potessi fare qualcosa per lei, cunnilingus compreso.
Ma per qualche bizzarra ragione, suonò la sveglia e mi ritrovai nel letto. Ricordo le lenzuola in seta, le mie preziosissime e costose lenzuola di seta, macchiate di rosso. Percepivo una strana puzza di stalla rimescolata all’odore di macelleria. Nutrivo un’ansia piuttosto eccitante, perversa, innaturale, ma istintiva. Palpitavo. Avevo un sapore strano in bocca, come di carne cruda. Ero tutto sudato, con il cazzo bello duro.  Le mie mani tremavano per l’adrenalina. Non mi sentivo così da quando ero ancora un timido tredicenne cattolico al cospetto di suor Mary, pronta a sodomizzarmi con uno strapon a forma di Padre Pio. Quindi individuai i resti sbranati di Daniela ancora sul pavimento. La tigre, distesa a pancia in su, ruttava oramai sazia.

Lo Strap-on alla regola – bozze annesse

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Quel mattino di settembr Mary virgola affascinante nella tutina in latice nero virgola si accomodò nel divano in sala e attese che l’aspirante schiavo gattonasse fino ai suoi piedi punto Con indosso un Scomodamente travestito da cameriera francese virgola piuttosto ridicolo per un uomo tanto grasso virgola il sottomesso trentasettenne completava il proprio compito punto
e a capo
La vista dei piedi de maiuscola La Padrona era un piacere che pochi schiavi si po lo avrebbe dovuto stimolare alla gratitudine punto e virgola eppure minuscola lo schiavo non parve entusiasta al cospetto delle schiav degli alluci laccati con smalto color porpora punto Mary se ne accorse virgola e colpì quella merdacc concluse mentalmente di aver sacrificato l’ennesimo pomeriggio per l’incapace di turno punto
e a capo
La maiuscola Padrona ordinò al minuscola sottomesso di maiuscola solo sull’articolo determinativo seguirLa in camera da letto sull nella stanza delle torture virgola che era piuttosto canonica inusuale due punti una branda da ambulatorio medico virgola il cadavere di un due caschi da speleologo virgola un disco di Tiziano Ferro apri parentesi per commento sarcastico del resto si trattava della stanza delle torture chiudi parentesi dopo il commento sarcastico che probabilmente non ha fatto ridere nessunovirgola un ventilatore virgola mestoli da cucina in acciaio inossidabile virgola colla vinilica virgola e una scatola di puntine da disegno punto Alle pareti virgola foto a colori di gattini punto
e a capo
«Il mio arredatore aveva finito le stampe sadomaso» virgola constatò ironicamente maiuscola La Mistress punto virgola «ma confido sulla tua fantasia e capacità di improvvisazione» punto
«Ogni luogo è perfetto pur di stare con È irrilevante» virgola constatò erroneamente minuscola il sottomesso virgola dimenticandosi titoli e liturgie necessarie durante una sessione di sottomissione punto In un momento differente virgola e con molto più tempo a disposizione virgola Mary avrebbe probabilmente fatto notare virgola e certamente punito ennesima virgola la mancanza punto Ma arance sale dentifricio deodorante per il bagno in quel preciso momento non vedeva l’ora di porre fine alla sessione a quell’insulso momento di nullità iperbolica punto
e a capo
«Masturbati Spogliati» virgola ordinò prontamente virgola «e toccati segati» punto
Lo minuscola schiavo obbedì punto La maiuscola Padrona lo osservò farsi una seg masturbarsi virgola constatando mentalmente le ridicole dimensioni oversize assolutamente nella media del pene del minuscola sottomesso punto Sorrise virgola sorrise rendendosi conto di non essersi poi persa nulla di che punto Alla vista delle poche gocce di sborra sperma dell’eiaculazione virgola Mary annuì punto «Ora levati dai coglioni» virgola ordinò subito punto
«Tutto qui punto di domanda» protestò il lo minuscola schiavo punto
La maiuscola Padrona annuì sputand sollevò le spalle due punti «Dovrei essere io a dire tra virgolette tutto qui? chiuse virgolettvirgola affermò dispiaciuta per il proprio prezioso tempo sprecato punto
Lo minuscola schiavo accettò la decisione sperava in qualcosa di più hardcore punto Ma quel pomeriggio non vi fu nessuno strap on alla regola punto 

continua doman FINE

Rock and roll star.

Parzialmente ispirata da Don’t Look Back in Anger, nel blog meraviglioso di Quidmarino

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Vivi la tua vita in città, senza alcuna via di uscita.
Le serate le trascorri al bar. Frequenti gli amici di sempre, che poi non sono nemmeno amici, ma una compagnia. Le amicizie non esistono, solo persone con cui sprecare assieme il troppo tempo inutile. Non hai una persona a cui confidare i tuoi tormenti, e perciò bevi.
Da queste parti chi lavora in un pub raccoglie più confessioni dei preti, nonché consensi. Fai la comunione con i chips & fish, che sono tanto fottutamente buone da lasciarti credere che forse siano più adatte dell’ostia per il ruolo di Corpo di Cristo.
La rissa non è una deriva sociale, ma puro folklore. Non ci si picchia per rabbia, ma per tenersi allenati a vicenda. Si fa a botte finché non si perdono i sensi. E spesso chi ti manda KO veglia su di te finché non ti risvegli. Poi tornate a casa assieme, chiamandovi “amico” a vicenda.
Chiudi la giornata in mutande, dopo aver lavato i denti, ascoltando una di quelle stazioni radiofoniche che mandano Bowie, poi i Quiet Riot, ancora Bowie, i Joy Division, Bowie e i Mott The Hoople (la canzone con Bowie).
L’ultima sigaretta la condividi con l’emicrania da sbronza e rissa, rimasticando un’immagine mentale color porpora, tagliata come i vecchi filmini della tua infanzia, sui Super8. Quei filmini con la tua famiglia sorridente e tutt’altro che felice. La famiglia appunto, quella roba a cui tu non pensi mai. Del resto hai visto come sono finiti Ian Curtis e Deborah: prima o poi si incontra Annik.
Però non sei solo. Hai una fidanzata di cui non conosci il secondo nome, né il cognome, né l’indirizzo di casa. Ci stai assieme perché scopa bene, anzi, perché non le fa schifo scopare con te. Vi vedete ogni tre giorni. Vi divertite per venti/trenta minuti e poi vi rilassate con qualche sterlina d’erba. A volte lei ti telefona, ma solo se ha bisogno di un passaggio. Tu invece non la chiami mai. Del resto non avresti nulla da raccontarle. Non sei mica bravo con le parole. Ogni volta che vuoi esprimere un’emozione, accendi lo stereo e lasci che qualcun altro lo faccia al posto tuo. Tu ti limiti a livellare il volume, rigorosamente fastidioso. Se sei incazzato, lasci che i Sex Pistols urlino al tuo posto. Se sei triste, assecondi la malinconia dei Bahuaus. E quando sei felice… beh, non sei mai felice.
Sei il re del cibo in scatola. Sei quel genere di personaggio che alle diete macrobiotiche preferisce il digiuno. Non sei mai andato a correre in vita tua. Lo sport lo segui solo in Tv. Quando vai a giocare a calcio, lo fai nella speranza di fare a botte con i ragazzi dell’altro rione. Hai trascorso gli anni della scuola ad annusare il meglio della letteratura inglese, ma poi hai scoperto il punk, il glam e il glam in chiave punk. Hai imparato l’importanza del muro di chitarre, e di testi privi di senso come quello di Supersonic. E c’eri anche tu a Knebworth Park, assieme ad altre 165000 persone, ad osservare i fratelli Gallagher mettere in scena una set list da serata al club, suonata freneticamente. Gli Oasis che quella notte ribadirono con un ruvido rock and roll quanto gli inglesi siano probabilmente animali da Pub anche nei grandi spazi. E tu in mezzo, a brillare, come una delle 165000 stelle del Rock and roll. Quella notte eri una stella del rock and roll e nient’altro. Solo una stella del rock and roll. E alla fine, sulle note di I am the Walrus, eri ancora ubriaco di Champagne Supernova.

Oasis – Rock and roll star.

I live my life in the city
There’s no easy way out
The day’s moving just too fast for me
I need some time in the sunshine
I gotta slow it right down
The day’s moving just too fast for me
I live my life for the stars that shine
People say it’s just a waste of time
Then they say I should feed my head
That to me was just a day in bed
I’ll take my car and drive real far
They’re not concerned about the way we are
In my mind my dreams are real
Now we’re concerned about the way I feel
Tonight I’m a rock ‘n’ roll star
Tonight I’m a rock ‘n’ roll star
I live my life in the city
There’s no easy way out
The day’s moving just too fast for me
I need some time in the sunshine
I gotta slow it right down
The day’s moving just too fast for me
I live my life for the stars that shine
People say it’s just a waste of time
Then they say I should feed my head
That to me was just a day in bed
I’ll take my car and drive real far
They’re not concerned about the way we are
In my mind my dreams are real
Now we’re concerned about the way I feel
Tonight I’m a rock ‘n’ roll star
Tonight I’m a rock ‘n’ roll star
Tonight I’m a rock ‘n’ roll star
You’re not down with who I am
Look at you now you’re all in my hands tonight
Tonight I’m a rock ‘n’ roll star
Tonight I’m a rock ‘n’ roll star
Tonight I’m a rock ‘n’ roll star
It’s just rock ‘n’ roll
It’s just rock ‘n’ roll
It’s just rock ‘n’ roll
It’s just rock ‘n’ roll
It’s just rock ‘n’ roll
It’s just rock ‘n’ roll
It’s just rock ‘n’ roll
It’s just rock ‘n’ roll

La rompipalle – Parte 2

Klaudia ci mise poco ad ambientarsi. Scelse una scrivania e la liberò da ciò che definì “inutile ciarpame”; malauguratamente l’inutile ciarpame era il progetto di un collega di origini irlandesi, il quale non fu felice di ritrovare il lavoro di mesi gettato malamente in un angolo.
«Ti ha dato di volta il cervello?» chiese infatti avvicinandosi alla finnica.
Klaudia scosse il capo. «Volevo star qui», rispose laconica, continuando a lavorare e non prestando un solo sguardo al collega furente.
«Io ti cavo gli occhi, puttana bionda», minacciò lui.
La scandinava lo osservò, sorrise e mostrò il dito medio della sinistra. Alla luce di ciò, Connor, così si chiamava il collega, afferrò uno dei disegni a cui lavorava la bionda e lo appallottolò, gettandolo poi nella pattumiera.
Klaudia, irritata, non reagì immediatamente, ma qualche giorno dopo rovesciò una tazza di tè caldo sopra le carte che affollavano la nuova scrivania del collega. Lui si vendicò passandole alcuni appunti nel tritacarte; lei rilanciò riempiendogli la scrivania di colla.
I dispetti terminarono quando Janet minacciò di licenziare entrambi.
Piuttosto felice dell’assunzione di Klaudia fu invece Max, il capoufficio italoamericano. Max era un quarantacinquenne corpacciuto e insicuro. Si sentiva un discendente di Rodolfo Valentino, ma era più che altro la controfigura del Commissario Winchester. Fiero delle proprie origini, quasi impropriamente, rappresentava quel genere di individuo spedito sul pianeta terra per screditare la leggenda metropolitana “italians do it better“.
Ovviamente, ritrovandosi in ufficio una bionda con seno da pornodiva e visino da bambola, non ci mise molto a partire all’assalto di quello che definiva “un gustoso bocconcino”. Purtroppo per lui, il bocconcino aveva una sessualità piuttosto complessa. Ci sarebbero state parecchie spiegazioni da dare, ma Klaudia rifiutò l’invito a cena con un semplice “no grazie!”
«E perché mai?» incalzò Max con presunzione. «Magari ci divertiamo!»
La finnica sbuffò infastidita. «Ripeto: no grazie!»
«Secondo me ti farebbe bene uscire a cena con qualcuno» insistette il capoufficio.
«Ho già risposto», concluse lei sbuffando.
Giorno dopo giorno l’inglese della bionda migliorava, anche se caratterizzato da frasi piuttosto brevi. In realtà quest’ultimo era quasi un vantaggio, vista la fastidiosa assenza di diplomazia che la contraddistingueva. Lo scoprì malamente Max, quando tornò alla carica con un altro invito a cena. Quella volta la finnica fu molto meno gentile che in precedenza: «sei troppo grasso», affermò senza mezze misure, «sarebbe molto imbarazzante».
Klaudia avrebbe trovato imbarazzante osservare l’italo-americano mangiare. Dal suo bizzarro punto di vista infatti, le persone sovrappeso tendevano ad abbuffarsi grossolanamente come cartoni animati, in una maniera piuttosto grottesca. Il resto dell’ufficio però suppose che quel “molto imbarazzante” fosse invece riferito a un eventuale amplesso. In effetti Max pesava due volte Klaudia, e da nudi facevano una figura piuttosto differente.
La sola che non pensò al sesso fu Kori. Kori era una designer nata e cresciuta a Yokohama, ma trapiantata a Boston nella seconda metà degli anni ’90. La giapponese osservò a lungo la finnica, studiandone il comportamento. Ne apprezzò la solitudine, la passione per il black metal, di cui Klaudia si nutriva quotidianamente per darsi la carica sul lavoro, i riti bizzarri come il pranzo alle 11 del mattino e gli addominali alle 15. Ne intuì anche la sessualità, in particolare scrutandone le reazioni al cospetto dei clienti e, soprattutto, delle clienti. Tuttavia, per quanto avesse il dubbio, non fu mai completamente sicura che Klaudia fosse effettivamente lesbica.
Ma il giorno in cui una giunonica cinquantenne dai capelli rossi mise piede in ufficio, Kori trovò conferma alla propria impressione. La rossa, nota arredatrice di uno studio associato, era una figura carismatica, dominante e affascinante. Era ancora una bella donna, piuttosto raffinata ed elegante nell’abbigliamento e nel modo di parlare. Kori scrutò meticolosamente le reazioni di Klaudia alla presenza della cinquantenne: arrossiva spesso, ridacchiava nervosamente, appariva fisicamente rigida e impacciata nel parlare. Soprattutto sembrava “accendersi” quando la rossa si rivolgeva a lei con frasi imperative.
Così qualche giorno dopo, durante la pausa pranzo, la giapponese rimase sola con la scandinava e affrontò la questione.
«Sei gay!» dichiarò sottovoce, sorridendole teneramente.
Klaudia annuì. «Non esattamente», le rispose imbarazzata.
Kori le sorrise ancora, ma stavolta senza tenerezza. «Se lo scopre Janet, sei fottuta, tesoro»

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La rompipalle – Parte 1

Era una giornata piuttosto umida, confortata da un vento soffiava da Sud Ovest a 9 miglia orarie. I termometri segnalavano una temperatura esterna di 75° sulla scala Fahrenheit, mentre sembrava scongiurato il rischio di pioggia.
Da pochi minuti erano passate le undici e Janet si apprestava ad intervistare la quarta candidata della mattinata. C’era da riempire una scrivania vuota nel reparto design, e sembrava che tutti gli architetti di Boston morissero dalla voglia di lavorare alla Hansen & Llyoid.
L’afroamericana rilesse gli appunti sull’ultimo colloquio, concludendo che una laurea ad Harvard amplificasse la presunzione di chi, come la venticinquenne che aveva appena lasciato il suo ufficio, si aspettava di essere accolto con tanto di tappeto rosso. Da quando esisteva internet inoltre, era diventato complesso scegliere designer capaci: il web aveva amplificato la tendenza a plagiare il lavoro altrui. I giovani architetti si sentivano avanguardisti, freschi, anti-convenzionali e rivoluzionari. Ma tutta questa presunta modernità ed innovazione si sintetizzava nello scimmiottamento di Frank Llyoid Wright e Le Corbusier, entrambi oramai morti da oltre mezzo secolo.
Infine, rimuginando la scontata considerazione “una volta era meglio”, Janet sollevò la cornetta chiamando la reception. «Fai entrare la prossima», disse a voce bassa e paziente.
La “prossima” era una ventitreenne finlandese. Si era trasferita in Massachusetts da poche settimane e, da quanto aveva scritto nel curriculum, la sua esperienza in ambito architettonico era piuttosto scarsa. Non possedeva nemmeno titoli adeguati, ma una laurea in Biologia. Avevo scritto di aver l’hobby della pittura, ma non era certo una referenza sufficiente. Nonostante ciò, Janet l’aveva selezionata comunque: era curiosa di sapere cosa avesse spinto la finnica a rispondere all’annuncio.
Tempo pochi minuti e l’afro-americana si ritrovò la giovane bionda davanti. Klaudia era di una bellezza piuttosto inusitata: lineamenti baltici; occhi grandi, chiari, e inespressivi; labbra carnose, rosate; carnagione piuttosto chiara, tanto da sembrare pallida. Il fisico era quello di una pornostar, con un seno irragionevolmente grosso su una donna tanto magra. L’abbigliamento invece era tutt’altro che pornografico: anfibi, pantacollant neri e felpa dei Megadeth. Janet ipotizzò che Klaudia non avesse chiaro il concetto di dress code.
«Non ci presenta vestite a quella maniera», la ammonì infatti. «La Hansen & Llyoid non è Google o Yahoo: ci si veste a una certa maniera».
La finnica, più perplessa che mortificata, sollevò le spalle. Oramai era lì, non poteva certo tornare a casa a cambiarsi. E poi, se ci avesse pensato bene, probabilmente non possedeva un solo capo adatto a quel genere di colloquio. Janet, per esempio, indossava un costoso tailleur color cenere. Klaudia concluse invece di non aver mai posseduto una giacca in vita sua.
«Lei parla inglese?» chiese ancora l’afro-americana.
«No», replicò sinceramente la bionda. «Mi faccio capire».
«Ti fai capire?»
La finnica annuì. «Però so disegnare», aggiunse entusiasta, palesando sia il marcato accento uralico, sia l’evidenza carenza di qualsiasi attitudine formale. «Tu sai disegnare?»
Janet, in parte divertita, si sforzò per osservare la bionda con profondo biasimo, ma non ci riuscì. Intuì di trovarsi al cospetto di una sontuosa rottura di palle, uno di quegli elementi irritanti e saccenti che è meglio perdere che trovare. Eppure avrebbe pagato per vederla in azione assieme alle vecchie cariatidi conservatrici e repubblicane che mandavano avanti quello studio architettonico per clientela snob. «Non so disegnare», le disse con tono materno. «Ma a noi serve una progettista, non una biologa capace di raffigurare un cavallo».
Klaudia annuì. «Una designer», puntualizzò. «Linee e curve», aggiunse candidamente. «Nulla di complesso».
L’afroamericana sorrise ancora, immaginando come avrebbe reagito il vecchio Llyoid, orgoglioso dei propri cinquant’anni di progetti intricati e ricercati, alla definizione “nulla di complesso”. «Perché mai dovrei assumerti?» le chiese infine.
Klaudia chiese e ottenne un foglio di carta e una matita. Disegnò un tavolo, piuttosto semplice: piano orizzontale e quattro gambe. Sembrava un disegno semplice, quasi insignificante. Invece mostrò l’enorme talento nel tratto della scandinava, la capacità di sintesi e l’assoluta velocità di realizzazione. Janet si sorprese, ma Klaudia era ciò che serviva alla Hansen & Llyoid.
«Ok», concluse infine. «Avrai una chance», aggiunse con una soddisfazione molto personale. «Ma vestiti decentemente: da architetto, non da giovane metallara».
Klaudia annuì entuasiasta, ma il giorno dopo si presentò in ufficio con la t-shirt di Unknown Pleasures. Del resto, dal punto di vista di Klaudia, un buon architetto non poteva non amare i Joy Division.

BDSM – Brodo Dado Sedano Minestra – Sottomissione domestica – 1

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Tutti gli schiavi avevano ricevuto l’ordine di raggiungere la sala principale per l’iniziazione di Anna; vestiti di tutine di pelle, stivali e maschere di lattice, si erano inginocchiati l’uno dopo l’altro ai piedi del cerimoniere, per baciargli devotamente la punta del grosso pene eretto.
Quella notte, dovevano esserci più atti di devozione che parole, più interazioni tattili che visive, e un enorme desiderio reciproco di ripetere nuovamente quell’orgiastica esperienza in futuro. Le frustrate risuonarono severe, costanti e abbondanti, mentre mugolii e sospiri vennero soffocati dalle ball gag. Proprio come era stato un mese e mezzo prima, all’iniziazione di Martino, Anna venne consegnata al cerimoniere dalla propria Mistress. La candidata era una diciannovenne bionda, alta poco meno di un metro e sessanta; le sue forme erano asciutte, quasi androgine; i capelli ricci, ma tagliati molto corti; il taglio degli occhi e le labbra carnose erano, assieme alle mani e i piedi minuscoli, gli unici indici definiti di femminilità. Era stata truccata con eyeliner e rossetto azzurro, vestita di una tutina scura a cui il cerimoniere aveva appena squarciato un grosso lembo, largo poco meno di un disco 45 giri, appena sotto la spalla sinistra.
«È una ragazza piuttosto giovane e ingenua per un passaggio del genere», commentò sottovoce Massimo, uno dei master più esperti, «tra qualche anno potrebbe pentirsi di ciò che stanno per farle».
«È questo che mi eccita», rivelò Cristina, sua moglie, anche lei dominatrice. «In cuor mio auspico anzi che ci ripensi tra un’ora».
A queste considerazioni ne seguirono di analoghe, alcune espresse esplicitamente, altre circoscritte a silenziose riflessioni personali.
Al centro della sala era stato posizionato un inginocchiatoio in castagno intagliato. I presenti osservarono il cerimoniere trascinare la schiava per un breve tratto, quindi afferrarla per i capelli e ordinarle di disporsi sull’inginocchiatoio. La candidata eseguì; e quando le venne ordinato di mettere i polsi dietro la schiena, obbedì.
Era venuto il momento di iniziarla al proprio ruolo, a lasciarle sul corpo un segno definitivo del proprio ruolo, un segnale che andasse ben oltre le semplici parole e banali liturgie da 50 sfumature di grigio: era giunto il momento di insegnarle fisicamente l’entità profonda della brutalità della dominazione e la passiva accettazione della stessa.
«Inginocchiata blasfema», cominciò il cerimoniere in attesa che gli passassero il ferro rovente, «rinunci innanzitutto all’inutile dio cattolico affibbiatoti alla nascita, abbracciando invece solennemente la divinazione di un’entità terrena», proseguì improvvisando enfaticamente. «Con un marchio sulla pelle sarai schiava fino alla morte. E non di chi ti riterrà degna, perché degna non lo sarai mai; ma di chi sarà abbastanza magnanimo e paziente da dare un senso alla tua inutile e patetica vita da sottomessa», concluse ricevendo il timbro a caldo, raffigurante una doppia “S” circoscritta in un serpente ad arco di cerchio.
In occasioni come quella, soltanto pochi dominatori riuscivano a completare la cerimonia. Al momento di poggiare la lastra rovente sulla carne, le mani tremavano, così come le ginocchia, perché marchiare a fuoco una persona è un’azione che richiede determinazione, ma anche sangue freddo. Il cerimoniere non temeva certo le urla di dolore, né la puzza della carne bruciata, né la consapevolezza che Anna, una volta marchiata, avrebbe probabilmente perso i sensi o il controllo della vescica.
E infatti, dopo che la diciannovenne venne marchiata, sottomessi, dominatrici e dominatori applaudirono. Ma non tutti avevano guardato. Non tutti erano riusciti a sostenere la vista della bionda che si contorceva soffocando gli spasmi di dolore. Non tutti avevano soffocato la debolezza umana di provare un’irragionevole pietà verso un dolore consapevole, cercato e assolutamente accettato.
Cristina invece, più fradicia di una diga in inverno, offrì la propria bocca a Massimo, in un bacio appassionato tra Master e Mistress, con i reciproci sottomessi in ginocchio ai loro piedi, tenuti al guinzaglio; e non appena fu sazia di quella danza di lingue in salsa di saliva, confidò la propria eccitazione: «non vedo l’ora che marchino i nostri schiavi», affermò entusiasta, «non vedo l’ora che mi venga chiesto se voglio o meno un cerimoniere», proseguì sadica.
«Vuoi farlo tu?» chiese il marito.
«No», rispose laconica Cristina.
Massimo rabbrividì.

Immagine presa dal web a questo indirizzo.

JD scrubs ultime parole. Marshall How I Met Your Mother Padre Ultime Parole.

La schiava sarda – pt. 6

«Gradisce un caffè?» si informa Marina, una volta raggiunto il tavolo del tedesco che, compiaciuto e soddisfatto, si gode una bistecca al sangue.
Andy annuisce, sollevando lo sguardo. «Perché sei vestita come una cameriera francese?» la interroga incuriosito.
«Perché sono una cameriera. E perché sono francese», rivela sinceramente lei, fornendo però una risposta imprecisa.

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La schiava Sarda – pt. 5

«Es gibt nur zwei gute Weiber auf der welt», sibila sottovoce, con compassata ironia, il tedesco. «Die Ein ist gestorben, die Andere nicht zu finden».
Francesca non ha capito, ma non ha intenzione di chiedere spiegazioni. Si limita ad allontanarsi.c57a8293-9452-4509-b563-db6d12fed718

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