Giurare di cambiare e tante altre simili promesse che non andrebbero mai avanzate:
poi è necessario mantenere, e la coerenza, è risaputo, non è di questi tempi. Proprio
come lui che tornò da Lei, quando Lei lo richiamò. Si diedero reciproche colpe, ma poi
ma poi, sì, poi, e ancora poi, quando dichiararono di volersi ancora, e si ricominciò
e tutto da capo, in un esplosione di lacrime e affetto. Parlare di quanto abbiano perso.
Quel senso di vuoto percepito per lunghi X giorni, riempendo il vuoto su whatsapp.
O forse no! Forse è solo un riverbero retorico che fa sopravvivere un tedioso romanticismo. Perché è troppo presto giurare affetto senza avere la cautela di osservare le cicatrici.
Che poi esiste un motivo se, per esempio, lunedì e giovedì hanno quei nomi diversi:
sono giorni differenti in fondo. Non si assomigliano, esclusi alba e tramonto in comune.
E le persone non fanno differenza. O meglio, poche persone fanno differenza. Raramente
quelle attenzioni che il lunedì colmano ogni vecchio vuoto sono già scemate il giovedì,
ma ogni singola parola che Lei pronuncia puzza della stessa identica merda già masticata. L’amarezza percepita tempo prima, l’incapacità di perdonare, di credere alle rassicurazioni. Anche quando giura di amarlo, che le frasi pronunciate talvolta sono solo frasi: è colpevole!
è Lui il vero colpevole, così feroce da cercare un pretesto per mollarla così, di botto, con un… punto.
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L’altra bionda succhiava meglio. (Finale)
Train set and match spied under the blind
Shiny and contoured the railway winds
And I’ve heard the sound from my cousin’s bed
The hiss of the train at the railway head
Always the summers are slipping away
Porcupine Tree – Trains
«Uno per Roma».
«Andata e ritorno?» mi chiedi con gentilezza.
«È indifferente».
Sei una bella ragazza, hai un bel corpo, hai un bel viso e, dal mio punto di vista, dal mio sessista punto di vista, con questo corpo non dovresti lavorare in tabaccheria. O forse sì, forse oltre che sessista sono anche presuntuoso, forse ho la presunzione che al prossimo non piaccia il proprio lavoro solo perché a me non piace il mio.
Così mi trovo seduto nella sala aspetto, ad osservare te, te, te e anche te. Osservo tutte voi, mie care belle figliole, osservo tutte quelle con cui passerei volentieri la notte, ma da cui fuggirei poi al risveglio. Sono cambiato nel tempo, sono diventato tipo da caffè, croissant e La Repubblica. Sono tra quelli che dal giornalaio ci vanno soprattutto per farsi la passeggiata, uno dei troppi che “tanto il 90% delle notizie le leggo da internet”. Le edicole non sono più il paradiso delle riviste erotiche, non scorgi più certi cazzoni o tettone invitanti esposti di fianco ai vari surrogati de La Settimana Enigmistica. Le edicole non sono nemmeno più il covo dell’informazione, ed è sbagliato, è sbagliato perché leggiamo meno e molto peggio. Il gossip tira più dell’approfondimento, sappiamo tutto della vita sessuale di Belen, ma non sappiamo quasi nulla di quanto avviene a Taiwan, Taipei o in posti generalmente costretti al trafiletto giornalistico. Lo so, sono discorsi da anziano catarroso e pessimista, ma ecco, prima o poi bisogna cominciare ad invecchiare, no?
«Dove va?» chiedi accomodandoti nel sedile di fronte al mio.
«Roma», ti sorrido gentilmente «tu?»
«Germania».
«La Germania è a Nord», ti faccio notare «questo treno invece va verso Sud».
«Non ci vado da sola in Germania».
E così esci dalla mia vita prima ancora di entrarci, facendomi notare che in Germania non andrai sola. Tu hai voglia di chiacchierare con me, ne hai voglia più per desiderio di compagnia che per eccitazione. Per me è il rovescio, è più desiderio di eccitazione che voglia di compagnia. C’era un fumetto che mi piaceva parecchio, era un fumetto a carattere pornografico, un fumetto che mostrava una scena in treno tra sconosciuti. C’era una lei che indossava delle scarpe con il tacco, scarpe da cui liberava il piede destro, per poi poggiarlo sul pacco di lui. È un’immagine che ho sempre trovato eccitante, un’immagine che, di fatto, mi accompagna in ogni singolo viaggio in treno che affronto.
«Perché va a Roma?»
«Lavoro» rispondo, ma rispondo con una bugia.
Non vado a Roma per lavoro, ci vado per tornare nel luogo in cui io e la bionda toscana ci siamo incontrati. Era una tabaccheria, la sua tabaccheria, quella in cui vendeva i gratta e vinci mentre canticchiava “Male di Miele”. Avevo acquistato qualcosa, forse delle sigarette o forse un biglietto dell’autobus, o forse entrambi o nessuno dei due.
«Come ti chiami?» le chiesi quando mi diede il resto.
«Fa davvero la differenza sapere come mi chiamo?»
E così tu, ennesima ragazza bionda con cui condivido la tratta fino a Roma, passi dallo status di possibile partner papabile per un 69 furente, a quello di logorroica compagnia che parla di una marea di argomenti di cui mi importa meno di un cazzo.
Anche la bionda toscana, che poi era umbra ma vive al nord eccetera eccetera, affrontava un sacco di argomenti che non mi interessavo. Ma la lasciavo parlare, e non perché fossi paziente, ma perché mi piaceva il suono della sua voce, anche se pronunciava parole di cui non mi importava nulla. È un poco come una brutta canzone suonata da una buona chitarra, non puoi non ammettere che abbia un bel sound. Ascoltavo poco quindi, la sentivo ma non l’ascoltavo e forse per questo non ho mai saputo come si chiamasse. Forse per questo lei preferisce spedirmi delle fotografie piuttosto che mandarmi delle lettere, lei, che in questo universo digitalizzato e digitalizzante, stampa ancora le foto su carta e scrive le lettere a penna. In fondo la bionda è una partner che al sesso virtuale preferisce quello reale, una donna che alle descrizioni in chat preferisce il sapore del frenulo sulle labbra, una compagna di letto che non crede a un’erezione finché non ne percepisce la consistenza con mano.
«Domani parto» disse un giorno.
«Dove vai?»
«Non credo sia importante», concluse «mi mancherai».
Non mi disse nemmeno allora come si chiamasse, ma tempo dopo mi contattò su Facebook, per quanto fosse registrata con un nome fittizio, cioè “Caffettiera Bionda”. È stato dai social che ho appreso dove viva, è stato grazie ai social che ho scoperto a luoghi della Toscana è legata e, sempre dai social, ho capito che il mio passaggio nella sua esistenza sia stato importante. No, non ha mai postato nulla di stucchevole riferito a me, nessuna frase triste, nessuna espressione di odio, o quant’altro. Ha solo cominciato a fotografare le caffettiere, ha cominciato a fotografarle per raccontare i suoi viaggi. Quindi, se conosci qualcuna che ha postato foto di caffettiere a Parigi, Amsterdam, Alghero o Roma, quella è lei.
«…così anche lui ha trovato lavoro ad Amburgo e abbiamo deciso di trasferirci». Sorridi. Sorridi dopo aver terminato di raccontarmi la tua vita; sorridi dopo aver ultimato un resoconto che ho finto di ascoltare con attenzione; sorridi perché il mio disinteresse è stato ben celato o forse sorridi perché parlare della tua vita ti mette di buon umore.
«Parlami di te», aggiungi alla fine.
«Ho quarant’anni e faccio un lavoro da ventenne».
«E poi?»
«Conoscevo una ragazza con i capelli viola».
«Era speciale?»
«No», concludo «È stata semplicemente l’ultima non bionda».
«E allora?».
«E allora non vale più la pena parlarne».
Aveva ragione la toscana bionda, aveva ragione quando sosteneva che prima o poi non avrei più parlato della donna dai capelli viola.
«Conoscevo una bionda», riprendo quindi «era umbra, abitava nell’Alessandrino, adorava bere il caffè e ascoltava gli Afterhours. Era uguale a tutte le altre bionde, ma anche assolutamente diversa».
Qualche caffettiera prima.
«Domani parto» disse quell’ultima volta.
«Dove vai?»
«Non credo sia importante, mi mancherai».
«Non mi hai mai detto come ti chiami».
«Nemmeno tu hai raccontato tutto di te».
«Conosci il mio nome».
«Vero, ma non è sufficiente per conoscerti. Di te non so nulla, salvo che ti piaccia dipingere, anche se la pittura non è il tuo lavoro. Mostri solo ciò che ti interessa mostrare, come quando affermi che fai un lavoro da ventenne, senza però specificare che lavoro sia».
E così se ne è andata via e mi ha pagato con la medesima moneta.
So dove vive ma non so come ci sia arrivata; so se sta male, ma non so chi o cosa la ferisca; so che non mi ha dimenticato, ma non mi ha mai spiegato il perché. So che pensa a me, lo so perché me lo ricorda con le foto delle caffettiere, ma non ho mai capito se il suo sia amore, odio, entrambe le cose o nessuna delle due.
L’altra bionda succhiava meglio. (pt. 2)
Certi istanti della nostra esistenza sono scanditi dal respiro altrui, respiro altrui che ci culla dolcemente, mentre lo percepiamo per contatto diretto, corpo su corpo. Ricordo il corpo a corpo con la ragazza con i capelli viola, tanto fredda anche nel respirare, come chiunque provenisse da Nord. Veniva da uno di quei posti dove nevica di continuo, uno di quei luoghi in cui il sole si assenta solo per un quarto d’ora, da quelle terre in cui il tasso di suicidi è direttamente proporzionale al reddito pro capite. Aveva gli occhi chiari, quasi trasparenti, e aveva la pelle bianca, quasi pallida, come un metaforico latticino ambulante. Conosceva pochissime parole italiane che, tra l’altro, pronunciava malissimo. Sapeva farsi capire, anche perché non avevamo chissà che da raccontarci. Per gran parte del tempo, infatti, avevamo la bocca occupata dai reciproci genitali.
Ok ok, comincio parlando di esistenze scandite dal respiro altrui e poi parlo di sesso fine a se stesso: lo so, è paradossale, ma viviamo in questa maniera credo, viviamo paradossalmente, in costante incoerenza.
«What time is it?»
«It’s time to go», rispondevo.
La relazione con la ragazza con i capelli viola andava avanti così, bastava un “join me” per trovarci e il resto era sufficiente farlo. Conoscevo poco di lei, conoscevo poco nel senso che sapevo a malapena come si chiamasse, e che venisse da un paese scandinavo. Credo non siano i dati anagrafici a identificare una persona, anzi, nulla è tanto distante dal concetto di singolarità quanto una id card. Nessun documento riporta voci come “single da due settimane” oppure “disillusa per via di un tradimento”; nessun documento amministrativo descrive le aspirazioni di un soggetto; nessun documento istituzionalizzato identifica le principali passioni di un individuo.
La ragazza con i capelli viola, per me, non era che un dato anagrafico, un dato anagrafico con cui facevo sesso, una persona con cui l’intimità era solo fisica. Non sapevo se le piacesse la poesia, né se amasse leggere; non conoscevo il nome di una sola delle sue amiche, sempre che ne avesse di amiche.
«Strano».
«Cosa?»
«Non conoscere il nome delle sue amiche».
Sapevo poco anche della toscana bionda. Per circa due mesi non ho saputo nemmeno come si chiamasse, lei mi chiamava “uomo” e io la chiamavo “ehi bionda”. No, non è che fossi lassista o superficiale, è che, la prima volta in cui parlammo, io mi presentai, ma lei mi rispose, con una domanda retorica, se avesse fatto o meno la differenza il sapere come si chiamasse.
Se fossi curioso?
Lo ero, credo fosse naturale esserlo.
Ma era affascinante l’essere parzialmente ignoranti, era davvero affascinante fare sesso, tanto sesso, con una persona di cui non conoscevo il nome.
«Perché il cappello della ragazza con i capelli viola è ancora qui?»
Giusto, il cappello verde della ragazza con i capelli viola. La bionda toscana è arrivata subito dopo, quindi gli oggetti dell’altra erano ancora presenti, compreso il cappello verde. L’ormai celebre berretto era destinato alla pattumiera, assieme a tanti altri “affetti personali” non miei, ma la toscana mi chiese di non buttarlo. A lei il cappello verde non dispiace, e non come copricapo, tutt’altro, ma come soprammobile, le piaceva vederlo mentre fottevamo.
«Lo guardavo la prima volta che mi hai leccato la fica», mi disse un giorno «vederlo mi eccita, mi ricorda la tua lingua».
Per questo il cappello verde resta li, perché spero di poter affondare nuovamente la mia bocca tra le gambe della bionda.
Lo so, parlo tanto di lei, ma la vita è strana, certi istanti sono scanditi dal respiro altrui, in particolare quegli istanti in cui il respiro altrui manca o quegli istanti in cui il respiro altrui appartiene all’altrui sbagliato.
È un poco come un “vaffanculo”, dipende sempre da chi lo pronuncia e da come lo pronuncia. Ma il suo respiro non lo dimenticherò mai, il modo che aveva di ansimare o di pronunciare ansimante «inculami», in una maniera tanto barbara quanto assolutamente conturbante.
E credo che sì, che la vita sia scandita dal respiro altrui, soprattutto quando il respiro altrui è concitato perché ci stiamo facendo sesso.
#frammento 47
C’è una rosa poggiata tra due pagine dello stesso libro, separa.
Separa la prossima pagina da scrivere da quella da strappare.
Strappare un sorriso alla persona sbagliata al momento giusto.
Giusto per non dimenticare il fine ultimo dell’umanità: il tempo.
Il tempo di un caffè e ci siamo innamorati, o forse no, dimenticarsi.
Dimenticarsi di essersi voluti beni, graffiati, baciati, odiati, rìvestiti.
Rivèstiti, che quel cazzo di accento non so dove ficcarlo, maledizione.
Maledizione sull’intera cittadinanza che non ha sacrificato l’oca.
C’è un’orca spiaggiata tra due volumi dello stesso oggetto, impara…
impala il tuo nemico e farlo impugnando un crocifisso, diffondi…
confondi, in fondo non c’è fondo fino in fondo allo stesso mondo…
mondani nostrani sempre più lontani a separare gli esseri simili…
sibili, come i lividi sul collo per chi non si inginocchia a succhiare…
amare, come verbo finale della declinazione di chiavare, chiave di re…
reati minori al temo del giustizionalismo privato, o forse anche meno.
Mena! Mena sempre per primo, uccidi il tuo simile, sii umano.
Sangue.
Non mestruo, sangue.