Le dimensioni contano – Parte 19

Riassunto: quando ha il ciclo, la protagonista viaggia tra gli universi. All’ennesima omissione, ferisce la madre con una violenta testata al volto.

Avevo 18 anni quando mia madre mi cacciò di casa. Mi consegnò le chiavi di un misterioso appartamento al centro di Sassari, che trovai arredato, pulito e con il frigorifero e la dispensa stracolmi di cibo. Sul tavolo della cucina c’era invece un biglietto:

Figlia mia,
posso capire che vivere a questa maniera ti faccia incazzare e soffrire.
Ogni volta però che mi metti le mani addosso, mi ferisci in modo devastante. Ho provato a volerti bene standoti vicina, ma la tua furia sovrasta costantemente l’affetto che dovresti provare nei miei confronti.

Un giorno tutte le tue domande riceveranno una risposta, te lo giuro.
Per ora stammi lontana.
In calce troverai gli estremi di un conto in banca cointestato, in modo che tu non abbia mai bisogno di soldi.
Abbi cura di te.
Mamma.

Effettivamente per due anni i soldi non furono mai un problema. Bollette e affitto arrivavano direttamente a casa di mia madre. Nel conto in banca c’era tanto di quel denaro da pagare uno schiavo conta-soldi.
Sperando di far incazzare la mia vecchia acquistai una costosa New Beetle color prugna, una Ducati 996 che non misi mai in moto, e un gommone con motore fuoribordo.
Nessuna reazione.
Mamma non si faceva mai viva. Se le telefonavo, mi chiudeva il telefono in faccia; se mi presentavo sotto casa sua, non apriva; se le mandavo i saluti con nonna, non ricambiava. Era anche capitato di incrociarla per strada, ma mi aveva ignorata, come se io fossi una cura sulle staminali e lei un prelato cattolico.
«Oggi sono due anni» raccontai un pomeriggio ad Ivan, uno dei tanti da cui mi facevo scopare in quel periodo. «Non sai quanto mi manca».
Mi fissò con tenerezza, o con quel genere di affetto che in genere si nutre per quelle che concedono lunghi e appassionati bocchini. «Devi andare avanti», asserì quindi, aggiudicandosi meritatamente il premio Grazie al Cazzo – Edizione 2000.
L’ultimo biennio del resto era stato la sagra dell’ovvietà: all’università passavo gli esami soprattutto perché avevo un grosso seno; in vacanza venivo trattata bene perché dispensavo mance anche se mi dicevano “ciao”; gli uomini si divertivano a letto con me perché riversavo su di loro tutto l’affetto represso destinato a mia madre che mi aveva ripudiata e a un padre mai conosciuto.
«Ivan, vorrei che mi facessi un favore».
«Se posso», replicò lui, che nel frattempo si era invece alzato e aveva cominciato a rivestirsi.
«Dovresti imbucare qualcosa per me, domani mattina», spiegai aprendo un cassetto del comodino e tirando fuori una busta gialla chiusa e già affrancata.
Destinataria era mia madre, ma non erano certo necessarie doti da preveggente per indovinarlo. Né serviva essere telepatici per intuire che il mio scopamico, sposato e adultero, difficilmente sarebbe rientrato dalla moglie con qualcosa di mio. Era anche vero che rifiutandomi un favore avrebbe detto addio alla mie tette.
«La imbuco strada facendo», propose quindi, forse dietro suggerimento del proprio scroto.
Mi stava bene. Gli affidai la busta e per una volta mi lasciai anche baciare teneramente sulle labbra. In genere limitavo le mie attenzioni ai cazzi, non ai tizi che se li portavano a spasso. Perciò di Ivan sapevo davvero poco. Apprezzavo l’affidabilità della sua erezione, la discrezione (ci mancava solo che non lo fosse, considerando la fede al dito) e la pulizia. Ma il suo viso ad esempio non mi piaceva, e presumo che non lo avrei mai frequentato se avesse avuto un cetriolone meno largo e/o meno tonico.
«Grazie», dissi comunque.
Lui mi sorrise teneramente. «Alla prossima volta», affermò congedandosi.
Ma nei piani miei non era prevista una prossima volta, né un domani.
Mezz’ora dopo mi chiusi a chiave. Sigillai le finestre con il nastro adesivo, abbassai le tapparelle e spensi tutte le luci. Accesi due candele e mi versai un calice di Greco di Tufo. Infine feci suonare il Cd Acido Acida dei Prozac +, unico oggetto che mia madre mi aveva concesso di portar via quando mi aveva sbattuta fuori di casa.
«Bene», sospirai serenamente. «Se mi vestissi da principessa sarebbe perfetto, ma va bene anche la tuta da ginnastica».
Immaginai il resto: i vicini che sentivano lo sparo proveniente dal mio appartamento; l’ambulanza, i carabinieri, il questore o chi per lui; Ivan che non poteva sfogare con nessuno il dolore per la mia scomparsa; mia nonna che si faceva carico di organizzare un meraviglioso funerale; i presunti amici in lacrime; mia madre che apriva una busta gialla vuota.
«Ci sarebbe stata bene Disperato!», conclusi sarcastica prima di ficcarmi la pistola in bocca.
Bang!

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