Le dimensioni contano – Parte 40

Dall’altra parte della strada individuai l’uomo che circa un anno prima avevo incontrato nel Fulham. Come spesso capitava, era magro anche se lo ricordavo grasso. Però era ancora basso, brutto e calvo. Aveva tutte le dita nelle mani.
Non sembrò esattamente felice quando ci accorgemmo di lui, visto che provò a scappare. Io non potevo certo seguirlo, visto che avevo i punti nella fica. Mia madre, che invece era molto pigra, si diresse lentamente verso il bagagliaio dell’auto, aprendolo. Tirò fuori un fucile da caccia. Quindi prese delicatamente la mira e centrò il fuggitivo alla caviglia.
«Porca puttana madre di Harvey Lee Oswald, ma dove hai imparato a sparare a quella maniera?» chiesi sorpresa, ma per nulla scioccata dall’aver appena assistito a un ferimento.
«Non sono cazzi tuoi», rispose la mia vecchia con la sua solita dolcezza da Labrador.
Ferito alla caviglia, l’uomo di Londra restò riverso sul marciapiede. Urlava come se gli avessero sparato alla caviglia. (Ridete! era una battuta) Era piuttosto improbabile che mia madre volesse interrogare quel poveraccio in mezzo alla strada, anche perché a breve sarebbero arrivate decine di curiosi. La mia vecchia mi fece segno di rientrare rapidamente in auto e ce la filammo. Fu piuttosto eccitante, e mi sentivo anche notevolmente umida tra le cosce.
«Gli hai sparato per sadismo?» chiesi a mia madre mentre guidava.
Scosse il capo. «L’ho fatto perché andava fatto», spiegò sibillina, tanto per cambiare. «Se a lui mancava un dito nell’altro universo, da questa parte a qualcuno doveva sparire un arto».
Logico, ma inutile: nella cuspide mi mancava tutto un braccio. Mi venne allora il dubbio che a mia madre piacesse il sangue quanto agli orsi piace il miele. Per certi versi non credo mi sbagliassi, visto che la osservai serena e compiaciuta. Inoltre quel tizio ci serviva vivo e tutt’altro che incazzato con noi: sparargli non mi sembrava il modo migliore per portarlo dalla nostra parte. Mia madre aveva però una teoria differente a riguardo: «verrà a cercarci ancora», disse. «Se ci ha trovate, significa che ci stava seguendo», spiegò, «e se ci stava seguendo, probabilmente ha bisogno di noi», concluse.
«Hai intenzione di sparargli ancora?» domandai preoccupata.
Scosse il capo. «Solo se strettamente necessario». Dunque voleva sparargli nuovamente.

Trascorsero due giorni, durante i quali non vidi mai mio figlio. Incontrai invece Gianni, l’uomo con cui ero sposata. Era un quarantenne con enormi sopracciglia tipo Elio degli EELST, mascella da pugile e prepotenza da scaricatore di porto tenuto in cattività per un ventennio. Le sue mani, sporche e callose, erano un monumento alla noncuranza; l’alito era quello tipico di chi mastica carogna e non chewing-gum; i movimenti goffi, la voce lagnosa e una tendenza imbarazzante alla bestemmia, completavano il quadro del troglodita che mi aveva messo un anello al dito. Mi chiesi in quale universo avrei mai e poi mai potuto far sesso con un essere del genere. La risposta era fisiologica. La mia vagina infatti era più umida e agitata dell’Oceano Pacifico durante un uragano.
«Mi devi 200 euro», disse Gianni. «Oppure tornami il cellulare che ti ho regalato il mese scorso».
In altri contesti lo avrei mandato a cagare, ma temevo che violentasse ancora la lingua italiana e lo accontentai. Mia madre aveva una zuccheriera con gli “spiccioli”, come diceva lei, da cui presi quattro cuccuzze da 50 euro. Ma non era tutto: il mio quasi-ex marito mi raccontò che un uomo, la cui descrizione corrispondeva alla perfezione all’individuo di Fulham che si era beccato una pallottola sul piede da parte di mia madre, si fosse presentato a far domande sul mio conto.
«Tieni la gentaglia che hai conosciuto a Londra lontana da nostro figlio», minacciò.
Semplice a dirsi, complesso a farsi: non sapevo chi avessi o meno conosciuto a Londra, né chi fosse pericoloso e chi no; soprattutto non c’erano appunti che potessero aiutarmi a ricordare e non capivo il perché.
In ogni caso rassicurai il troglodita, fregandomene del fatto che potessi mantenere o meno la promessa. In quel momento volevo semplicemente liberarmi di lui, oppure possederlo sul tappeto di casa di mia madre, impalandomi sul suo cazzo come un tonno al mercato del pesce. Purtroppo, con grande disappunto della mia patatina, vinse il “liberarmi di lui”. Per trovare sollievo, mi masturbai con quello che credevo il dildo, delicatamente, perché i punti nella vagina ancora dolevano.
«Da quanto hai un vibratore sulla Jacuzzi?» chiesi a mia madre una volta uscita dal bagno.
«Non ho un vibratore», mi informò ridendo. «Ti sei sollazzata con una boccetta di profumo».
«Aveva la forma di un cazzo», opinai inquieta.
«Amore», affermò con affetto. «Al giorno d’oggi tutto ha la forma di cazzo».
Due ore più tardi ricevemmo visite: dando ragione a mia madre, l’uomo di Fulham
venne a cercarci. Aveva un piede fasciato, e l’aria di chi cercava aiuto bussando a casa di Freddy Krueger. Eppure per la prima volta dopo anni ricevetti risposte chiare alle mie domande.

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