Le dimensioni contano – Parte 20

Riassunto: quando ha il ciclo, la protagonista viaggia tra gli universi. Cacciata di casa dalla madre, a 20 anni decide di tentare il suicidio sparandosi in bocca.

Qualcuno mi unse la fronte.
«Benedici quest’olio, Signore, e benedici la nostra sorella inferma, che ne riceve l’unzione e il conforto», recitava una voce rauca e solenne.
Ero ancora viva, anche se vegetale. Immobile, prigioniera del mio corpo, ero cieca e tetraplegica. Potevo ascoltare i suoni e percepire gli odori, ma nulla di più. Presumo fossi sedata, o comunque anestetizzata. Ero una muta voce interiore che chiamava aiuto, mentre tutto ciò che era stato il mio corpo persisteva in un cinico e inesorabile stato di quiete paralizzata.
Che cazzo avevo sbagliato? Mi ero spappolata la parte sbagliata del cervello? Soprattutto, perché mia madre e mia nonna si ostinavano a tenermi in vita senza farmi crepare serenamente?
«Non puoi ucciderti», affermò una voce femminile, che percepivo distorta, ma che riconobbi come quella di mia madre. «Se anche ti fossi decapitata, saresti comunque rimasta miracolosamente in vita», aggiunse. «Dio ci odia, brutta stupida!» bestemmiò singhiozzando, «Dio ci odia!»
Nella mia vita, salvo un’eccezione, non c’era mai stato un Dio in cui credere. Ma cominciai a ipotizzare di essere nel bel mezzo di un antipasto d’inferno.
Persi rapidamente la cognizione del tempo, ma non la compagnia. Mia madre c’era sempre, anche se gran parte delle volte stava zitta. Riconoscevo però i momenti in cui era sola, perché cantava. Intonava dolcemente brani che non riconoscevo, in lingua inglese: uno parlava di una ragazza che perdeva il controllo, l’altra di giochi d’ombra.
«Ho sempre sognato di sposarmi sulle note di Shadowplay», rivelò una volta, l’ultima volta. «Addio, tesoro mio».

Mi risvegliai nel mio letto. Mi girava la testa, ma ero nuovamente un essere umano e non una patata lessa attaccata a un respiratore. Spensi la radiosveglia, settata su Acida dei Prozac +.
Sorrisi. Credo che altre al mio posto si sarebbero messe a piangere, ma io corsi alla finestra per vedere il mondo fuori e urlare la mia felicità: «porca merda, che culo!» esclamai in modo tutt’altro principesco, entusiasta di quella botta di fortuna interdimensionale.
Ero esaltata, dimenticando però l’unica costante che gli universi paralleli avevano sempre dispensato in otto anni: l’equilibrio. Se io stavo bene, qualcuno doveva inevitabilmente star male.
Quel qualcuno era Ivan, che qualche settimana prima, andato via da casa mia, aveva avuto un terribile incidente. Esattamente come successo a me nell’universo precedente, non aveva avuto la fortuna di crepare, ma vegetava attaccato a dozzine di macchinari in una stanza d’ospedale.
«Collega di Ivan?» mi chiese la moglie quando mi individuò seduta in disparte, fuori dal reparto di Rianimazione dove era ricoverato il marito.
Annuii cercando di dissimulare un affetto che non credevo di nutrire. «Una specie», sussurrai. «Come sta?»
«Una specie», riverberò lei. «Quindi è con te che scopava?» chiese ruvidamente fregandosene di chi ci circondava, compresi i parenti di Ivan.
Ovviamente non confermai, ma non ebbi nemmeno la prontezza di negare. Inoltre non mi venne lasciato poi chissà quanto tempo per parlare.
La moglie del mio scopamico mi colpì con uno schiaffo che, se non avesse indossato un grosso orologio in acciaio, sarebbe stato praticamente innocuo. Invece mi devastò il labbro superiore, che cominciò a sanguinare come il culo di un frocio, e il naso, che sembrava un’opera di Leonardo reinterpretata da Kandinskij.
«Mio marito è ridotto così a causa tua, troia!» mi accusò ancora, mentre mi allontanavo frettolosamente.
Tecnicamente aveva torto, visto che non avevo certo costretto Ivan a scopare con me, né a correre come un forsennato durante il tragitto di rientro a casa; presumo però che il suo incidente compensasse il mio tentato suicidio nell’universo precedente.
In tutti i casi l’azione più opportuna da compiere in quel momento era sciacquarmi dalle palle. E visto che mi trovavo già in ospedale, passai dal pronto soccorso: mi ricoverarono due giorni per sistemarmi la frattura del setto nasale.
«Mi mancava vederti insanguinata», rivelò mia nonna quando venne a trovarmi nel pomeriggio.
Le sorrisi malinconicamente. «Mamma non si scomoda nemmeno a ‘sto giro?» commentai sommessamente.
«Le passerà!»
A quel punto le raccontai della dimensione precedente, soffermandomi soprattutto sul non potermi uccidermi. Mia nonna si limitò a confermare ciò che già sapevo, aggiungendo che sia lei che mia madre avevano provato inutilmente la stessa strada in passato. Mi disse anche che non sarei potuta morire se prima non avessi messo al mondo una bambina.
«Ne sei certa?»
«Lo sono!» rispose laconica.
«E come lo sai?»
Nessuna risposta a quell’ultima mia domanda, né allora, né in futuro.
Quattro settimane dopo rientrai nella cuspide, giusto in tempo per farmi stuprare da Luca/Marco, il mio adorabile patrigno.

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