Il presunto omicidio/suicidio di Mister Smith

Si alzò dalla poltrona e si versò due dita di bourbon. Non avrebbe dovuto bere a stomaco vuoto, ma non aveva fame. In realtà avrebbe dovuto smettere con molte altre cose e avere maggiore cura di sé stessa, ma non quella domenica sera. E poi il giorno preposto al “domani smetto” è il lunedì.

L’ultima volta che aveva scopato era stato con un ragazzo di due anni più giovane, per sbaglio. Lo avevano fatto nei bagni del pub, senza guardarsi negli occhi. «Ci voleva proprio» si dissero, un poco come chi è tornato da una corsa nel parco. Per il resto erano d’accordo sulla storia da raccontarsi per fugare i reciproci sensi di colpa: la svuotapalle di turno.

Ma ora era annoiata, infastidita. Il marito avrebbe voluto abbracciarla teneramente, perché in fin dei conti i mariti servono anche a quello oltre che a rovinare l’esistenza delle loro ex fidanzate, ma lei non dava l’impressione di voler essere toccata. Voleva solo un’emicrania. Si stordiva con l’alcol, in modo da avere una buona scusa per avere quella faccia e per evitare il sesso coniugale. Nessuno capiva quanto oramai lo schifasse.

Gerry Scotti vomitava buonismo. Il televisore era acceso, sintonizzato su Canale 5, su uno di quei programmi dove in teoria dovrebbero partecipare concorrenti provenienti da tutta l’Italia, ma 2 su 3 hanno l’accento lombardo. Paradossi della telediffusione. Le immagini arrivavano dappertutto, ma non i treni. E la bottiglia dell’alcol era proprio nel mobile del televisore, sotto, dietro una vetrina. Per sbronzarsi bisognava passare per lo zio Gerry. «Quanto odio quando si definisce Lo zio Gerry» sibilò lei.

Tornò verso il divano con il bicchiere pieno. Si accomodò e diede una sorsata generosa che le fece fare una smorfia. Si guardò la mano libera e si rese conto che avesse bisogno di una manicure, o di altro alcol. Aveva bisogno di un altro cazzo forse, oppure di un buon pianto, oppure che quello stronzo alla Tv la smettesse di ripetere “grazie a Dio” per ogni cazzata. «Che si fotta Dio» sancì bevendo ancora.

Il marito la fissò. Si sentì inutile e fuori luogo. Si sentì anzi usato. Se abitava in quella casa, era perché un giorno sarebbe servito un qualcuno che organizzasse un funerale. Era una sorta di becchino, anche emotivamente. Era colui che aveva seppellito tutte le speranze della moglie. O forse non era proprio così, ma era come lei lo raccontava. Alla fine però lui si ricordò di una vecchia promessa.
«Ti prenderai cura di me, cercherai di farmi star meglio?»
«Sempre!» le aveva risposto.

Perciò le mise le mani attorno al collo. Lo fece con profondo amore, conscio che la moglie non desiderasse altro che abbandonare quella valle di lacrime. Del resto era una depressa alcolizzata, oltre che un’adultera frigida. Ed era anche blasfema. Sì, ricordava di averla sentita bestemmiare, ne era certo, o quasi.

Ok, forse anche lui aveva bevuto un bicchiere di bourbon; facciamo due; diciamo tre, se proprio vogliamo essere onesti. A stomaco vuoto, ovviamente. Dunque non era lucidissimo quella sera… ma aveva sentito la moglie bestemmiare, forse. Ed era certo che l’avesse tradito. Anche se, a pensarci bene, quel «ci voleva» lo pronunciava anche lui. Capita di mentirsi, no? Se poi ci si mette anche lo zio Gerry, a qualcuno sale il crimine. Lo zio Gerry che li teneva compagnie da tante settimane, ma che non avrebbe potuto testimoniare su chi fosse davvero alcolizzato tra i due.

Forse non le aveva fatto un favore ad ucciderla… Per fortuna abitavano al settimo piano, perciò «volare, uooooooh!»

Splat!

Tutta colpa di Gerry Scotti!

La vastità del prato che me ne frega.

Il giorno scopre la notte solo perché glielo raccontiamo con le nostre fotografie. Diamo dei nomi al nostro stupore, come “tramonto”, “alba”, “panorama”, anche se in verità viviamo tutto ciò senza proferir verbo, a bocca spalancata.
Ed è questo il bello.
Al nostro risveglio, i nostri occhi ignoranti si fidano della superstizione dei colori, e vediamo arancio ciò che magari è rosso, un poco per questioni ottiche e irradianti, e un po’ perché sbagliare ci fa ancora sentire ingenui. Per questo ci avviciniamo alla grande distese di fiori, sia quelle profumate, sia quelle che puzzano di stagno, per ricordarci di quanto era bello, da bambini, immergerci là dentro, quando chiamava “felicità” e “libertà” il semplice sgranchirci le gambe in mezzo alle margherite. Certo, forse era meglio da grandi, da adolescenti, quando i fiori abbiamo iniziato a fumarceli. Ma possiamo anche fare le due cose assieme, cioè cercarci un bel prato e drogarci serenamente.
Ma sì, buona domenica e porco dio!

Nina Succhiava

Nina succhiava. In ginocchio tra le cosce aperte del fidanzato, uomo brutto ma ben dotato, si sentiva al sicuro, anche se lui non le diceva mai nulla di confortante. Con l’odore di carne bruciata ancora nelle narici che le ricordava un’infanzia di sevizie domestiche, aveva scelto di affezionarsi a bastardi che quantomeno la spedissero in paradiso quando la penetravano, perché se non poteva evitare di incontrare uomini di merda, tanto valeva guadagnarci almeno qualche orgasmo.

Nina sperava. Consigliata da un’amica, aveva portato il proprio curriculum in un pub locale. Nina aveva quel genere di sorriso sarcastico e coinvolgente che un cliente avrebbe accolto il suo invito di non guardarle più il décolleté, ordinando però un’altra pinta di Kilkenny. Senza dover fare la civetta, poteva fare in modo che i maschietti spendessero 5 euro di più solo per vederla compiaciuta mentre appuntava l’ordine. Era il fascino impagabile del dubbio, del non sapere se potessero avere una possibilità di portarsela a letto quella sera, oppure prima o poi.

Nina sognava. Uscendo da casa della madre,  la quale passava più tempo all’oncologico che tra le mura domestiche, ripensava sempre a quanto era bello quando tutto era bello, dimenticandosi che – probabilmente – non fosse bello nemmeno all’ora. Pur volendo sorridere al proprio ottimismo che cercava di non strozzare nonostante la quotidianità, Nina sperava costantemente in un qualche miracolo che le lavasse via di dosso la sensazione di essere destinata a una corda al collo e un po’ di eroina in corpo, o giù di lì.

Nina succhiava, perché sentire il suo uomo mugolare, ansimare e venire le dava la minima allucinazione che in un qualche modo il libero arbitrio potesse esistere; o magari, meno filosoficamente, adorava il sapore di cazzo del proprio fidanzato.

Love will tears us apart… again!

Si erano conosciuti in mare, come in un racconto vittoriano. Avevano saltato i sottintesi e la retorica, abbracciandosi quasi subito. Nessun complimento esplicito, salvo il cercarsi in continuazione con lo sguardo. Desiderarsi con un sordido sorriso. In acqua nulla resta immobile, ma tutto galleggia. Così il loro affetto. Erano giovani, ma non abbastanza a confondere la realtà con i romanzi rosa. Per dirla con i linea 77, la vita a volte sa di fragola, ma molto spesso è merda. Erano come un demo-tape, tanta attitudine e pochi fronzoli. Un giorno il vento cessò. Lui restò lì, a fissare il mare, lei si allontanò, per tornare in città. Chilometri di promesse rese importuali dalla consapevolezza, in quel momento precisa, che un amore puro si stesse trasformando in cieco rancore. Le liti, i silenzi, milioni di ragioni per privare di qualsiasi epiteto quello che era cominciato come “meraviglioso” e che ora diveniva “anonimo”. Sì, perché quando ci si vuole bene non ci si chiama per nome, ma ci si guarda; e certamente non si perde tempo a dare definizioni, perché la bocca è impegnata a baciare, leccare, succhiare. Perciò dimenticarono il nome della persona di cui non sarebbero mai riusciti a dimenticare lo sguardo addolorato. Fu una consolazione rendersi conto che l’amore li avrebbe devastati ancora in futuro…

Alcolismo serale – 2

Le persone non si spaventano facilmente. Non quelle che conosco io almeno. C’è una guerra là fuori. La stanno perdendo tutti, ma combattono ugualmente. Per questo è stupido trascorrere il tempo che ci resta tra un bombardamento e l’altro a lamentarci dei bombardamenti. Ci bombarderanno comunque. Non conviene allora leggere? Qualcosa di Hemingway magari, tipo Il vecchio e il mare.

Immagino di morire a quel modo. Stai leggendo un libro e tra pagina 37 e 38 ti spegni. Accade senza soffrire. Ti addormenti, nulla di più. Credo sia il modo più onesto di andarsene. Una sorta di decapitazione del cordoglio. Invece è sempre tragico. Va come non dovrebbe. Guarisci dal cancro, ma qualcuno ti punta la pistola alla testa e preme il grilletto. Bang Bang!

Così tu arrivi chissà dove, e incontri chissà chi. Magari viene messa in discussione la tua condotta terrena, magari no. Magari ricevi addirittura delle scuse, tipo “sai, non avresti dovuto nascere in Medio Oriente”, o semplicemente “mi dispiace di averti fatto crescere vicino a una stronza che si sveglia e ascolta gli 883”. Lo so, lo so, ho un’idea di pietà divina molto differente da quella cattolica.

Secondo me il vostro dio si incazza quando vi sente aprire bocca e sparare certe cazzate, tipo quella che l’aborto è un femminicidio.

God Save the Queen

Gli amici? Erano i nostri accordi. C’era sintonia tra noi, e non solo metaforica. Eravamo quelli non abbastanza fichi per stare con gli altri che avevano il motorino; anche perché non avevamo il motorino. Ma avevamo la chitarra, e sapevamo suonare tutta Salvation, dei Rancid. Che nessuno ricorda. Ma la ricordiamo noi, ed è ciò che conta. Gli amici? quelli che condividono un ricordo che nessun altro condividerebbe. Nel nostro caso gli amici erano coraggiosi, oltre che stupidi. Come quando si andava a suonare in luoghi dimenticati da Dio, e il pubblico era composto solo da vecchi. E noi sul palco a suonare punk. 70 enni che ci guardavano come alieni mentre suonavamo God Save The Queen. E i nostri amici là sotto. Non erano mai più di 3-4. Conoscevano le canzoni. E quando stavi al microfono, cercavi i loro occhi. Volevi sincerarti che stessero cantando. Gli amici? quelli che sai che cantano anche quando non li guardi. Poi sono cresciuti. E ora che ti incontrano, con moglie e figlio, la terza o quarta domanda è sempre la stessa: “stai ancora suonando?”. Perché hanno sempre qualcosa da proporti. Una cover band degli skunk anansie, oppure “facciamo Ben Harper”. Sì, troviamo il tempo. Gli amici? Quelli che promettono di trovare il tempo, ma non ci riescono mai. Eppure ci provano, quello sempre.

Risvegli Narcotici – Colpevoli

Non tutti hanno gli stessi tempi. Per circostanze o propensione naturale, ci distinguiamo tra i Turbo e i Diesel. Che poi odio la metafora legata ai motori, perché la usava una mia docente del liceo, la quale mi stava molto sul cazzo; anche il liceo mi stava molto sul cazzo. Ok, trovate qualcosa che non stia sul cazzo a me e verrete premiati.

Comunque abbiamo tempi diversi. Ci sono persone che capiscono subito le regole del gioco e le assecondano. Sono vincitori, anche se è una definizione cruda. Sono quelli che prendono il bottino grande e lo divorano osservando la frustrazione degli avversari. E qui nasce l’equivoco: non tutti sono consapevoli di essere in gara.

Dal mio punto di vista anche i perdenti conoscono le regole del gioco e anche loro le assecondando. Semplicemente lo fanno in modo differente. Stare nel mucchio è facile, perché nessuno si rende conto dei quinti o dei penultimi. Sono lì, che ci provano e non riescono, fine, ma godono del privilegio dell’anonimato. L’ultimo no. Lo vedi, lo indichi, lo irridi.

Eppure è una scelta. L’umiliazione è tale solo se rispetti le regole del sistema, solo se accetti la gara eterna e la competizione sistematica. Non lo è più se decidi che devi fare ciò che ti piace, e che con i tuoi risultati gli altri possano pulirsi il culo. Così la gara diventa carta igienica. E tu puoi defecare sulle ambizioni altrui privandole della giusta gloria. Per anche far sorgere il dubbio al vincitore di aver gareggiato da solo. Oppure puoi smetterla di drogarti alle 7:32 del mattino.

Ma la droga è buona e fa bene.

Alcolismo serale.

Ho fatto qualcosa di male a Youtube. Ne sono certo. Diversamente non mi troverei gli stramaledetti Evanescence nella riproduzione automatica. Dio, quanto li odio. Se c’è un genere musicale che mi infastidisce più del New Metal e di Fedez, quello è lo pseudo rock messo in bocca a voci femminili. Mettetemi i Garbage e vi sbocchino anche se avete i cazzi sporchi. Ma no Evanescence, Lacuna Coil o i Florence e i Stocazzo, perché li detesto, Dio cane.

No, ok. Forse non sono di umore esattamente primaverile. Ma chi lo è? Su wordpress intendo. Non so se avete presente, credo di no, ma c’è un brano dei Roxette, che si intitola tipo June Afternoon. Si tratta di una canzone allegra, ma molto inquietante. A 14 anni mi chiedevo quale allucinogeno avessero preso Maria e l’altro prima di scriverla. Esprimeva un ottimismo malato, peggiore anche quello di Jovanotti, che è un poco il Re degli ottimisti irritanti.

Il punto è che a me i Roxette piacciono. Sono nordici e la musica nordica è sempre fatta bene. Da Copenaghen in su hanno il bel vizio di fermare la loro percezione del rock ai primi anni 80. Tipo per gli svedesi gli U.F.O. sono una band attuale, e gli Europe sono il futuro. Che poi, beati loro, perché continuano a partorire chitarristi come Kee Marcelo o John Norum. Noi invece abbiamo Fedez.

Da poco (ieri) ascoltavo Ana Johnson. Si tratta di una svedesina (che poi ha tipo 41 anni ma ne dimostra 21) che 10 anni fa uscì con un singolo che si chiamava We are. Ok, era una canzoncina senza grandi pretese, ma fatta bene. Aveva un bel intro di piano e una chitarra cazzuterrima (lo so, non esiste “cazzutterrima”) sul ritornello. E aveva anche un bel testo. Parlava tipo di Guerre (ok, come Jovanotti), ma lo faceva in modo intelligente (tipo Saviano, ma meno serafico).

Diceva una roba tipo “siamo tantissimi, ma non siamo mai stati così soli”. Ok, sembra banale, ma suona molto bene nel testo. Ha una metrica precisa, come un paio di mutande che ti sorreggono il cazzo e non ti si infilano su per il culo dopo che metti i jeans. Comunque ora esco a fotografare il tramonto, che ho bisogno di like su instagram. Sapete, la compesanzione a colpi di “mi piace” e quelle robe lì da psicologi 2.0.

(non ho voglia di rileggere – quindi beccatevi i refusi, i verbi ad mentulam, le ripetizioni e non scassatemi i coglioni).

Risvegli narcotici – Vecchi dentro.

Ho ancora in bocca il sapore del caffè. Ho dei documenti da consegnare entro due settimane; devo fare i biglietti aerei per un appuntamento importante; Venerdì devo occuparmi di questioni legate al fisco; dovrei andare a pagare due bollette. Insomma, ho un botto di cose da fare. Se ne ho voglia? Conoscete qualcuno che ha voglia di svolgere le proprie commissioni? In caso di risposta positiva presentatemelo.

Da quando non ho più i gatti ho cominciato a sviluppare una sorta di allergia al silenzio. Quando hai animali, lo spazio è inevitabilmente occupato. Se non fanno versi, sporcano; se non sporcano, dormono dove non dovrebbero dormire; se non dormono, fanno versi. Diciamo che riempiono le giornate. E alla fine occuparsi di loro ti responsabilizza. Credo sia tipo avere figli, solo che non devi spendere un sacco di soldi in pannolini o dvd dei Teletubbies. Sì, si denota che non sappia davvero un cazzo sui bambini. (ci va il congiuntivo?)

Nelle mie passeggiate mattutine, quelle da vecchio dentro, vedo spesso come si risvegliano le altre famiglie. Raramente provo invidia. Che scopino o inizino la giornata con il telegiornale regionale, non importa, perché anche io potrei farlo. Invidio però quelli che aprono la finestra e fumano. E non perché voglia fumare, ma perché vedo la soddisfazione nei loro occhi quando fanno il primo tiro. Fumare appena svegli, con i polmoni tenuti a bada da uno di sonno, è una gigantesca cazzata! Non è salutare. Eppure è pura soddisfazione, 100 % orgasmica.

Credo sia questo il libero arbitrio, la scelta di farci del male consapevolmente. Dio benedica le droghe e ovviamente anche l’amore; ma soprattutto le droghe.

 

Le dimensioni contano – Parte 29

Durante il tragitto verso casa pensai a mio marito e a ciò che mi ero persa: il primo incontro, il primo bacio, la prima scopata, il primo weekend assieme, la prima cena, il primo “ti amo”, la prima volta assieme al mare, la prima lite, il primo concerto assieme e il suo primo “in verità Irene Grandi mi fa cagare”. E poi il fidanzamento, il matrimonio, l’ormai celebre karaoke sulle note di Mio dolcissimo amorela scelta della casa e dei mobili, l’acquisto di quel cassonetto motorizzato noto ai più come Fiat Punto.
«Eccomi», affermai entrando in casa. Dissi “eccomi”, ma in realtà intendevo “abbassati pantaloni e boxer, che ti succhio il cazzo finché non ti si seccano le palle”.
Ma lui non aveva voglia di scopare. Anzi, dopo aver letto il contenuto dell’agenda rossa, l’ultima attività che avrebbe voluto fare assieme a me era proprio il sesso. Non appena mi vide si alzò di scatto dal divano e sospirò. Mi guardò accigliato, con espressione preoccupata. Sembrava quasi in lutto e non serviva chissà quale attitudine alla psicologia per ipotizzare che fosse turbato.
«Tutto ok?»
Rispose con una smorfia. «Quanti anni ha tua madre?» chiese enigmatico.
«Quarantatré».
«E tua nonna ne ha sessantasei, giusto?» domandò retoricamente.
Risposi annuendo.
«Se tua bisnonna fosse viva, sarebbe un’ottantanovenne», continuò lui.
Ancora non capivo. «Diventate madri a ventitré anni. Non prima e non dopo», rivelò allora con rabbia, scuotendo l’agenda rossa.«È scritto qui dentro».
Restai basita. Quella dell’età era una questione notevole, che non mi convinceva. Se potevo diventar madre solo a ventitré anni, come mai ero rimasta incinta a venti? Purtroppo la risposta a quel quesito era più ovvia di certe battute di Enrico Papi, che di quei tempi ci massacrava i coglioni con quello scempio neurologico televisivo chiamato Sarabanda. Restare incinta non significava diventar madre.
«Bella merda!» commentai quindi sottomettendomi all’imprescindibile volere degli universi paralleli. «Mi dispiace», aggiunsi quindi, conscia che mio marito fosse soprattutto arrabbiato.
Sposandomi, aveva probabilmente accettato tutte le mie stranezze. Ma presumo che non volesse avere figli solo secondo i voleri dei miei viaggi interdimensionali. Voleva decidere, come ogni cazzo di cristiano che non resta fottuto da un preservativo bucato o da una sveltina da ubriaco. «Grandissima merda!» commentò ribadendo il mio concetto precedente.
Mi avvicinai per abbracciarlo, ma fu lui ad abbracciare me. Provai a ripetergli il mio dispiacere, ma fu lui a dispiacersi per me. Avrei voluto rassicurarlo, affermando che tutto sarebbe andato bene, che gli sarei stata vicina, e altre vaccate melense da libro di Susanna Tamaro, ma accadde il contrario: fu lui a rassicurarmi, ripetendomi che tutto sarebbe andato per il meglio e che mi sarebbe stato vicino, e mi avrebbe amato e…

Nei giorni successivi mio marito continuò a studiare l’agenda rossa, illustrandomi passo per passo ciò che scopriva in quelle pagine. Ero abituata a mia madre, che aveva taciuto per vent’anni; mio marito invece parlava subito. Alcune rivelazioni furono per lo più inutili: viaggiavo tra gli universi per via di un’anomalia genetica ereditaria – grazie al cazzo; la mia famiglia era ricca, ma non avrei visto un quattrino fino alla morte di mia madre; mia nonna era stata sposata con un armatore polacco.
«Nessuna spiegazione invece sul perché il mio patrigno resuscita tra un universo e un altro» raccontai una sera proprio all’ex moglie dell’armatore polacco.
«C’è scritto che nella cuspide accade quello che non può accadere negli altri universi?» chiese conferma mia nonna.
«C’è scritto», replicai, avvertendo improvvisamente una piccola fitta allo stomaco. «Porco Giuda!» imprecai immediatamente.
Era passato un mese dall’aborto, il ciclo stava per tornare. Avevo paura, mi seccava perdere mio marito. Mi aveva fatta sentire protetta, amata e … «Non è detto che lo perda…» disse teneramente mia nonna.
«Secondo te lo perdo?»
Mi sorrise. «Starà bene», affermò, abbracciandomi.
Poi per la prima volta mi raccontò del padre di mia madre: «ero a Manchester, con mio marito»,  raccontò sorseggiando un sorbetto al limone, quando con “sorbetto al limone” si intende “un bicchiere di bourbon” e con “sorseggiando” si intende “tracannare”. «Un giorno incontro questo biondino, al porto. Disse di essere italiano, ma puzzava come un danese».
«Come puzza un danese?»
«Puzza come un italiano. Solo che è biondo».
Sorrisi. «E poi?» chiesi curiosa.
«Poi mi portò a bere e mi baciò al tramonto», raccontò insolitamente romantica. Strano, solitamente lei era quella che si vantava di dare ancora il culo
«Non basta un bacio per ingravidare una donna», ricordai maliziosa.
Sorrise. «Noi non siamo come le altre», affermò sibillina. «Ma ci sono cose che voglio raccontare, e altre che voglio tenere per me. Questa è una di quelle che voglio tenere per me».
«Ti manca?»
Sorrise. Era un “sì”. «Ora vai a casa», disse. «Certe cazzate sentimentali lasciamole a quei filmacci con Meg Ryan dove la nonna sta per tirare le cuoia».
Furono le sue ultime parole: morì due ore più tardi, investita dalla vedova di Ivan.