Le dimensioni contano – parte 6

Riassunto: la protagonista, quando ha il ciclo, viaggia tra gli universi. (Il resto rileggetevelo – la storia comincia qui)

Gli anni delle medie trascorsero sereni. Ascoltavo Don’t Cry dei Guns n’Roses, studiavo, riascoltavo Don’t Cry dei Guns n’Roses, giocavo a pallamano, guardavo la videocassetta dove avevo registrato il video di Don’t Cry dei Guns n’Roses, uscivo con le coetanee, scrivevo sul diario il testo di Don’t Cry dei Guns n’Roses, mi innamoravo di ragazzi già innamorati di ragazze già innamorate di un ragazzo già innamorato di me. Infine, nel tempo libero, mi piaceva sentire Don’t Cry dei Guns n’Roses.
Il primo bacio lo diedi a Samuel, conosciuto in campeggio e dimenticato come conobbi Fabrizio nell’universo successivo. Fabrizio era alto e affascinante. Mi baciò al tramonto, in riva al mare, mentre mamma e nonna aspettavano impazienti che rientrassi con le pizze.
«Domani parto», mi disse mentre gli facevo assaggiare la capricciosa di mia madre.
«Se mi dai il tuo indirizzo, ti scrivo tutti i giorni», proposi sorridente.
Gli scrissi tre volte, l’ultima delle quali non imbucai la lettera. Mi erano venute e stavo per cambiare universo, quindi rischiavo di spedire parole dolci a uno sconosciuto. E poi che senso aveva alimentare una corrispondenza a distanza, se avevo un vero e proprio fans club di morti di figa brufolosi che mi sbavava dietro?
Ero una ragazza piuttosto appetibile e appetita. E parlando di appetito, mi riferisco a un’epoca in cui i miei coetanei si segavano fino a lessarsi le palle su foto di Francesca Dellera, Valeria Marini, Serena Grandi e altre vacche con labbra a canotto e seno giunonico; un’epoca dunque in cui la mia quarta coppa D mi ergeva al romantico ruolo di “bonazza” della classe. Avrei potuto avere anche la faccia di Susanna Tamaro, che i ragazzi mi avrebbero filato ugualmente. Per mia fortuna, ero molto più carina di VaddovettipportailQuore.
In tutti gli universi, oltre alla quarta di seno, e la mia avversione per la Tamaro, e la mia passione per i Guns, e il mio vizio di merda di mettere “e” congiunzione subito dopo la virgola, c’era una certezza che si ripeteva costantemente: mia madre voleva che tenessi un diario.
Io ero contraria. Sapevo che possedendo un diario, lei e la nonna lo avrebbero letto. Anzi, lo avrebbero studiato, analizzandolo virgola per virgola. Ne ero certa. Mi avrebbe sorpreso se non lo avessero fatto, perché spesso erano meno discrete di certi personaggi interpretati da Mario Brega nei film di Verdone.
Finché un giorno, al risveglio in un nuovo universo, mi ritrovai addosso un orribile pigiama color merda. E senza togliermelo, uscii dal letto e mi spostai in cucina per far colazione. Così, dato il buongiorno a mia mamma e un bacio alle rughe sulla fronte della nonna, mi sedetti a tavola. Quindi afferrai due fette di pane, con l’intenzione di spalmarci sopra un poco di marmellata.
Mia madre mi saltò letteralmente addosso, strappandomi il cibo dalle mani.
«Sei impazzita?» mi chiese preoccupata. «Sei celiaca, stupida!»
«È un risveglio», mi giustificai grattandomi il dorso del seno sinistro, che sentivo stranamente ruvido. «Non sapevo di essere ce-cosa».
«Celiaca», chiarì mia madre. «Il pane ti fa malissimo, stupida, sei allergica», sospirò.
Mi spiegò quindi cosa fosse la celiachia. Capii la metà delle parole, tra cui il fatto che pane e farinacei mi sciogliessero in merda, disidratandomi a morte.
«Ci starò attenta»
«Devi tenere un diario», consigliò nuovamente mia nonna, severa. «Devi farlo in tutti gli universi», aggiunse. «E devi lasciarlo sempre sul comodino, alla destra del letto», spiegò con voce da maestrina-frattura-ovaie.
La guardai con biasimo, rabbia, incazzata come un tifoso della Juventus dopo una finale di Champions League.
«Ne abbiamo già parlato», ricordai. «Lo leggereste», insinuai.
«Sai che effetto ti fa il pane?», ribadì mia madre, senza tuttavia smentire la mia insinuazione, «devi avere un posto in cui siano appuntate tutte quelle robe che devi sapere: eventuali allergie; che scuola frequenti; dove tieni i soldi, gli assorbenti e le medicine», continuò petulante come quelli che ti fermano per strada per spiegarti che senza Dio nella tua vita non ti sentirai mai libera.
«Una sola cosa è essenziale», opinai quindi. «Evitare di rileggere ancora una volta quella merda stucchevole de Il piccolo principe». Risi, ma quella leggerezza durò poco. Effettivamente la celiachia non era uno scherzo.
«C’è mai stato un diario nei vari universi in cui sei stata?» mi informai poi.
Mia madre non mi rispose, mia nonna nemmeno. Da come mi guardarono lo presi per “no!”
Lei però non stava ragionando multidimensionalmente, Grande Giove. Se nessuna me aveva adottato il diario in nessuno degli universi in cui mi ero ritrovata, probabilmente esisteva un metodo ancora più sicuro per trasmettere le informazioni. Su questa consapevolezza sorrisi soddisfatta, sentendomi improvvisamente più scaltra e furba di mia madre e mia nonna.
Peccato che, spogliandomi, trovai un’atroce cicatrice sul mio seno sinistro.
«Porca puttana», urlai spaventata.

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