La schiava Sarda – pt. 5

«Es gibt nur zwei gute Weiber auf der welt», sibila sottovoce, con compassata ironia, il tedesco. «Die Ein ist gestorben, die Andere nicht zu finden».
Francesca non ha capito, ma non ha intenzione di chiedere spiegazioni. Si limita ad allontanarsi.c57a8293-9452-4509-b563-db6d12fed718

Ogni sfumatura è enfatica: il rintoccare gentile dell’orologio a muro; la superficie traslucida degli stivali in pelle; i Radiohead, in sottofondo, passati confusamente da un DJ di provincia; il suono di un paese abitato ma non affollato, circoscritto a qualche chiacchiera tra pettegole e urla entusiaste di bambini che si sfidano a rigori. La luce, flebile, che vince la resistenza delle tende, e illumina le mani eleganti e curate della Padrona. E Marina lì, accovacciata ai suoi piedi, come un’ancella romana. La schiava è più immagine che persona, come in un affresco del cinquecento, oppure in un sonetto leopardiano.
«Non ancora!» afferma Francesca, osservando il quadrante dell’orologio.
Mancano tre minuti alle sei del pomeriggio. Mancano tre minuti e nove secondi. Ora otto secondi. Ora sette. Ora sei. E così via.
«Non ancora!» ripete ancora, mentre la schiava annuisce.
Nel frattempo, sdraiato nel letto singolo al centro della camera B2, con in mano la copia di The Moor Last Sigh, Andy Koller ripensa agli indizi finora raccolti. Poche notizie, nessuna delle quali rassicurante: Jürgen Brielle è stato visto, e nemmeno con certezza, da due sole persone. Secondo Andy, è probabile che il connazionale sia morto. Jürgen è bravo a sparire, o passare inosservato, ma prima o poi riappare. Chi non lascia indizi, probabilmente non può farlo.
«Adesso!» accerta Francesca, quando le lancette dell’orologio segnalano le sei in punto.
La ventunenne si siede sul bordo del letto, poggiando le mani al centro del materasso e piegando leggermente la schiena all’indietro. Le gambe sono larghe, nude, fasciate solo da un paio di calze in nylon che sfociano in un paio di stivali. Il sesso è libero da indumenti, biancheria e, come già detto, peluria. C’è solo un rivolo alcalino, umido, che lubrifica piccole e grandi labbra, segnalando un’evidente eccitazione.
Marina non ha bisogno di ricevere ordini espliciti. Per dominarla è sufficiente l’indice nella dritta della Padrona; quell’indice che indica dove posizionarsi e quale parte del fisico padronale soddisfare. La schiava ventisettenne si trova quindi inginocchiata tra le gambe di Francesca, con le mani poggiate sul pavimento. La vagina della Padrona è lì, a meno di mezzo metro di distanza. Non c’è che da attendere l’ordine verbale, o un semplice cenno, per poggiare labbra su labbra. È un’attesa intensa, quasi infinita. La slave non vede l’ora di cibarsi della donna che venera e a cui ubbidisce; ma quest’ultima non ha fretta di assecondare i desideri dell’attesa. L’attesa è un gioco sottile, e per nulla scontato. Francesca sa bene che Marina ammazzerebbe pur di poterle poggiare la bocca sulla fica. Eppure attende, desiderosa ma disciplinata.
«Cosa vorresti?» la interroga maliziosa, con voce bassa e sensuale.
La schiava vacilla. La domanda rimanda ulteriormente quel momento che lei aspetta con tanto ardore e che, dopo averglielo fatto letteralmente annusare, la padrona ritarda. «Vorrei leccare il Suo sesso divino», ammette sommessamente Marina, «Padrona».
Francesca si compiace. Le piace la timidezza artefatta della schiava, così spontanea nella sua estraneità. È adorabile la capacità di Marina di mostrare il proprio desiderio e la relativa castrazione dello stesso. Sembra sia quasi possibile leggerle la mente, carpirne i pensieri.
«Non oggi», conclude laconica e sadica la ventunenne, chiudendo le gambe e spostandosi. «Toccati rapidamente! Poi fai ciò che ti ho detto».
«Sì, Signora», proclama la slave, con gli occhi momentaneamente serrati e la fisiologia di chi ha pregustato inutilmente l’appagamento. Marina è bagnata; i suoi capezzoli sono duri e turgidi; i muscoli pettorali sono contratti, tesi. E mentre Francesca si allontana, Marina si infila due dita nella vagina.

«Gradisce un caffè?» si informa Marina, una volta raggiunto il tavolo del tedesco che, compiaciuto e soddisfatto, si gode una bistecca al sangue.
Andy annuisce, sollevando lo sguardo. «Perché sei vestita come una cameriera francese?» la interroga incuriosito.
«Perché sono una cameriera. E perché sono francese», rivela sinceramente lei, fornendo però una risposta imprecisa.
Il tedesco fa un cenno con il capo, piuttosto ineffabile in realtà. Non è chiaro se abbia annuito, o semplicemente esplicitato il proprio imbarazzo. Marina si è però già allontanata. Tempo dieci minuti, e Koller sorseggerà un caffè dolce ma dall’aroma intenso. Tempo quattro ore, e il tedesco si risveglierà completamente nudo, e vincolato alla parete su una croce di San Andrea.

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