La schiava Sarda – pt. 2

«Arrivo!» annuncia Jürgen.
«Sì, Signore», risponde la schiava, distendendo un tappeto ai piedi del letto e inginocchiandosi.ed41b952-d5d4-4848-8d40-520ae4412cef

Jürgen è in bagno. Respira l’essenza del sapone dozzinale, tanto dozzinale che non lo si può nemmeno chiamare “profumo”. Ma non solo. C’è umidità sui muri, anche se non molta. È un ciuffo di muffa che fa da cornice tra rivestimento murario e intonaco. E poi l’odore delle plastiche. Il tipico odore di plastiche lavate con varechina, e nemmeno troppo bene. Plastica, varechina e feci. Il bagno C20 andrebbe pulito con al benzina, avrebbe un profumo migliore.
«Italiani del cazzo!» pontifica Jürgen, ficcandosi in bocca la pastiglia fucsia.

Marina, così si chiama la schiava, è una mora ventisettenne. È alta poco più di un metro e settanta. I suoi occhi sono grandi e chiari. Le labbra scure e carnute. I lineamenti vagamente medio-orientali. Il fisico è formoso e atletico, esaltato per l’occasione da una tuta red falum in latice, perfettamente aderente su seno, glutei e spalle, e slanciato dal tacco 12 di un paio di stivali in tinta con la tuta. Il trucco, fatta eccezione per il rossetto color ciliegia, è complessivamente sobrio.
«Himmeldonnerwetter!» impreca nel frattempo Jürgen, ancora in bagno. «Dove è handtuch?» protesta irritato, rendendosi conto di non conoscere il vocabolo italiano che identifica gli asciugamano. «Dove io trova un towel
La schiava non risponde. Se Jürgen le ordinasse di cercare un asciugamano, Marina obbedirebbe. Ma lui lo sta chiedendo informalmente, dalla prospettiva del cliente di hotel che non sa dove asciugarsi le mani, non da quella del padrone che impartisce ordini. Uno strusciare nevrotico, suggerisce che l’uomo si sia infine asciugato sulla tenda della doccia.
Tempo pochi secondi, e Jürgen compare al cospetto di Marina. «Io fatto te domanda blöde fotze», annuncia nervoso, apostrofandola come “stupida fessa”. «Perché tu no ha risposto?»
«Signore», replica tiepida la schiava, «sono una prostituta, non una cameriera».
Un violento ceffone sintetizza il disappunto del tedesco. Marina non vacilla, abbastanza abituata ad essere percossa, anche se Jürgen, rivolgendosi all’agenzia non ha specificato una sessione violenta.
«Da ora, tu parla se io dice», riprende lui, sciorinando uno dei grandi classici del rapporto master/slave. «Se no, tu tace».
Jürgen osserva rapidamente la donna, è di suo gradimento. La ventisettenne ha un fisico eccitante e fotogenico, e ha lineamenti armonici. Marina trasmette uno strano ossimoro estetico, con il viso dolce e innocente contrapposto a un fisico conturbante. Non sarebbe improbabile se le chiedesse di mettersi in posa, per scattarle quindi qualche diapositiva.
«Alza in piedi», riprende Jürgen, afferrando Marina per la coda di cavallo e tirando in verticale.
Lei obbedisce. L’uomo le gira attorno, osservandola con sguardo indagatore, facendo attenzione alle sole caratteristiche fisiche, un poco come si usa con le bestie da pascolo o monta. Jürgen è compiaciuto, e si esibisce in un sorriso appagato. Con la dritta soppesa consistenza di seno e sedere. Poi la destra sale fino alle labbra carnose della donna, con l’intenzione, rapidamente assecondata da lei, di farsi succhiare la prima falange di indice e medio.
«Tu spoglia!» aggiunge infine.
Se lui ha un’erezione, la reazione di Marina è assolutamente opposta. L’uomo non la eccita. Non le trasmette quel tipo di chimica che, almeno in questo frangente, dovrebbe soggiogare una slave. Jürgen è più che altro goffo. Manca di portamento altero, di eleganza, di enfasi e teatralità nel tono della voce. E la sua brutalità è solo un macroscopico riflesso di una rozzezza innata.
Marina non è però qui per divertirsi, o appagare le proprie attitudini alla sottomissione. Se la ventisettenne si trova nella camera C20, è per mere questioni professionali. Quindi, che le piaccia o meno, dovrà obbedire alle ruvide e patetiche richieste del cliente.
«Tu parla tedesco?» chiede lui, sperando di poter impartire ordini nella propria lingua.
«Signore, no!» replica laconica.
«Chiama me “Sir”».
«Sarà fatto, Sir».
Marina è ora nuda. La pelle è giovane, elastica, leggermente abbronzata. La peluria è praticamente assente, in particolare in prossimità del sesso. Nell’incavo tra coscia destra e ventre un piccolo tatuaggio, una “C” gotica alta circa sette centimetri. Diversi i piercing: un bilanciere al capezzolo destro; un diamante nell’ombelico; due anelli al cappuccio del clitoride.
«Tu ora spoglia me e poi succhia!» riprende infatti Jürgen, riducendo così il ruolo della schiava a una figura che non obbietta se le si chiede un pompino. Ma Marina è selettiva. E quando non si sente partecipe, è anche irriverente. Come già espresso, non si sente parte del gioco! Il tappeto sul pavimento è l’unico elemento raffinato nel cuore di una sessione di sottomissione scadente.
«Cosa devo succhiarle, Sir?» chiede infine sottovoce, conscia di aver appena gettato un fiala di benzina dentro un caminetto. Il tedesco esplode di conseguenza, colpendola con un manrovescio. Marina cede sulle ginocchia. Sanguina, le nocche dell’uomo le hanno ferito uno zigomo.
«Il contratto parla solo di schiaffi», sibila velenosa. «Se non sai dominare una donna, non travestirti da padrone, Arschloch
Jürgen si appresta a rimarcare la propria posizione, ma qualcosa manda in frantumi uno dei vetri nell’unica finestra. È stata una fucilata, sparata da non meno di duecento metri.
«Addio!» sibila Francesca, osservando la scena attraverso il mirino telescopico dell’arma.

– Continua –

nota: immagine presa dal web.

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